Il nostro Paese deve affrontare la sfida dei flussi migratori, non fare a braccio di ferro con l’Europa, ma invitare alla solidarietà e accoglienza di chi fugge da gravi situazioni. La riflessione di Luciano Gualzetti, direttore della Caritas ambrosiana

di Luciano Gualzetti
direttore Caritas ambrosiana

nave diciotti

Alla fine è stato necessario l’intervento dei Vescovi italiani per trovare una soluzione alla vicenda della Diciotti. Solo la disponibilità delle diocesi, ad ospitare nelle proprie strutture con il sostegno delle Caritas, i profughi ancora a bordo dell’incrociatore della Guarda costiera italiana, ha infine convinto il Governo a farli sbarcare. Tuttavia, nonostante la Chiesa abbia dato uno sbocco accettabile ad una storia incresciosa, proprio come cattolici, membri cioè di quella comunità, non possiamo affatto rallegrarci né cantare vittoria.
Resta fortissima l’amarezza per le conseguenze culturali e morali che questa cocente sconfitta della politica ha avuto. L’ennesimo braccio di ferro tra il nostro Paese e gli altri Stati europei, ingaggiato con cinismo sulla pelle di disperati, e in spregio ai doveri di accoglienza imposti dalla nostra Costituzione (la magistratura valuterà anche se in violazione della legge), non solo non ha sortito al momento alcun reale effetto concreto, ma ha inferto un altro duro colpo alla nostra capacità, come collettività, di saper guardare al bisogno di aiuto espresso da persone in fuga.
La condotta spregiudicata cui abbiamo assistito ha spinto ancora più in là il limite di quello che è lecito e non lecito fare e dire, continuando a far avanzare una generalizzata desertificazione delle coscienze da cui quella stessa condotta trae alimento, in un gioco di rispecchiamenti senza sosta.
Ne registriamo ogni giorno preoccupanti attestazioni specie sui social media, dove l’abitudine di scambiare la spontaneità per autenticità pare abbia eliminato ogni freno inibitore.
Solo per citare l’ultima è sconfortante prova che ci ha toccato da vicino, proprio nei giorni in cui si chiudeva il porto di Catania la morte di un giovane ospite, avvenuta in un centro di accoglienza nel Milenese, gestito da una nostra cooperativa, è stata accompagnata da inqualificabili commenti sulla pagina Facebook del quotidiano on line che ne aveva dato notizia: “Uno di meno da mantenere”, qualcuno si è permesso di scrivere.  
Ci stiamo avviando su una china pericolosa. Dobbiamo risalirla, prima che sia troppo tardi. E per farlo abbiamo bisogno, come Paese, non di una propaganda a tempo indeterminato ma di una politica maiuscola, che sappia affrontare la sfida che i flussi migratori ci pongono con umanità e senso di responsabilità. Una politica che dia al nostro Paese il ruolo che gli spetta a livello internazionale e, in funzione di questo, sia capace di chiedere con forza la solidarietà degli altri Stati europei. Alcuni esponenti dello stesso governo lo vanno sottolineando sempre più frequentemente. Purtroppo inascoltati.
In occasione della commemorazione della strage di Marcinelle, dove l’8 agosto 1956 trovarono la morte 262 minatori, tra cui 136 italiani, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ci ha, giustamente, invitato a ricordarci quando persone di altri Paesi ci chiedono accoglienza, che siamo stati una nazione di migranti, andati stranieri nel mondo, in cerca di lavoro. Ieri noi, oggi loro. Una frase potente, ricca di conseguenze, e che infatti non ha mancato di suscitare polemiche. Eppure è proprio da questa memoria condivisa (e che qualcuno vorrebbe negare) che possiamo ritrovare un sentire comune e le risorse morali per affrontare il futuro.
Senza questa visione, l’inaridimento dei nostri cuori continuerà e troverà, dopo i migranti, altri obiettivi da colpire, a seconda delle occasioni che la smania del facile consenso saprà individuare: gli appartenenti ad altre fedi, gli esclusi, gli emarginati. In una deriva infinita.

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