Le nascite sono sempre più l’esito finale di un processo decisionale sul quale pesano fattori culturali, sociali, economici e istituzionali. Che cosa dice e che cosa suggerisce l’analisi demografica del nostro Paese
di Alessandro
ROSINA
Demografo Università Cattolica del Sacro Cuore – Coordinatore Scientifico Rapporto Giovani Istituto Toniolo
Per millenni e millenni nella storia dell’umanità la vita è stata trasmessa da una generazione alla successiva in condizione che i demografi definiscono di “fecondità naturale”. Ovvero la questione del “quanti” figli avere e “quando” averli non si poneva. Si formava una unione di coppia e poi i figli semplicemente arrivavano. Poteva accadere di non averne, nel caso di infertilità, o di averne molti. Oggi le condizioni sono molto diverse.
Un aspetto senza dubbio positivo è aver prolungato la durata di vita di chi viene al mondo. Se in passato era del tutto normale la perdita prematura di un figlio, ora questo è diventato un evento raro. La mortalità infantile, soprattutto in Paesi avanzati come il nostro, è stata ridotta a livelli molto bassi e la maggioranza delle persone arriva in buona salute in età anziana. Un secondo aspetto di grande cambiamento è la riduzione del numero di figli, conseguenza del passaggio dalla condizione di fecondità naturale all’inclusione della riproduzione nella sfera della scelta.
Le nuove possibilità aperte dalla società moderna incentivano i genitori a investire maggiormente su istruzione e ascesa sociale dei membri più giovani della famiglia. Diminuisce così la quantità e sempre più enfasi viene data alla “qualità”, con conseguente aumento anche dei costi di allevamento della prole. A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo le nascite sono così diventate sempre più l’esito finale di un processo decisionale sul quale pesano molti fattori (culturali, sociali, economici, istituzionali). Il peso della scelta non riguarda solo il contenimento del numero di figli che potenzialmente si potrebbe avere, ma investe anche la situazione opposta, ovvero quella di chi non riesce ad averne ma li desidera.
Non solo: negli ultimi decenni del XX secolo siamo entrati in una nuova fase, in cui “l’onere della prova” si è invertito. Ovvero, se prima l’atteggiamento di base era quello di avere figli e l’azione di riduzione richiedeva una scelta esplicita in sottrazione, ora la condizione di partenza è l’assenza di figli ed è l’averne che richiede una scelta deliberata supportata da fattori positivi. Ne consegue che, se un Paese vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone ad avere figli: è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi delle condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli desiderato, è necessario mettere in campo mirate azioni di supporto a tale scelta.
In ogni caso le politiche familiari hanno il vantaggio di andare incontro a un desiderio positivo. Fino agli anni Settanta la riduzione della fecondità è stata guidata dal ridimensionamento del numero di figli desiderato, coerente anche con nuove esigenze e opportunità di investimento sulla qualità attesa dei figli. Tale numero è sceso fino al valore medio di due figli per donna, ma si è poi stabilizzato attorno a tale livello negli ultimi decenni. Il numero medio di figli effettivamente realizzato è invece sceso a fine anni Settanta sotto il valore di due (che corrisponde al livello di “rimpiazzo generazionale”), facendoci entrare in una fase demografica in cui ogni nuova generazione è sistematicamente meno consistente rispetto a quella precedente. Questo significa che oramai da circa quarant’anni facciamo meno figli rispetto a quanti ne vorremmo e a quanto necessario per un esatto ricambio generazionale.
Il crollo tra la fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta è stato, poi, particolarmente accentuato e repentino portando il nostro Paese a raggiungere il record negativo della bassa fecondità nel mondo. Successivamente, varie altre Nazioni sono scese su livelli ancora più bassi. Ciò che però caratterizza l’Italia è l’essere il Paese con più persistente bassa fecondità: siamo quelli che da più lungo tempo mantengono una fecondità media più vicina a 1 figlio che a 2. Una condizione che produce come esito una prospettiva di progressiva riduzione della popolazione, ma ancor più un suo accentuato invecchiamento.
La scelta di avere un figlio va intesa come conferma del senso di appartenenza alla comunità in cui si vive e impegno positivo verso il futuro. Il bello del mondo di oggi, rispetto al passato quando si davano per scontati, è che ora i figli si scelgono. Il brutto, invece, è che non stiamo favorendo le condizioni perché tale scelta – pur desiderata (come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo) e collettivamente virtuosa – possa essere pienamente realizzata arricchendo le vite delle famiglie italiane e rendendo più solida la nostra società.04