L’Arcivescovo ha partecipato alla presentazione del libro del giornalista Andrea Galli, “Dalla Chiesa. Storia del generale dei Carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia», delineando il profilo di credente del “Prefetto dei 100 giorni”

di Annamaria Braccini

Incontro a Palazzo di Giustizia

«Cosa rappresentata Carlo Alberto Dalla Chiesa? Forse ne avevamo un poco il mito. Era il Generale che era riuscito in tante imprese, a sconfiggere il terrorismo e che, quindi, aveva raccolto le speranze che si potesse riuscire anche contro la mafia. La mia reazione alla strage fu di scoraggiamento perché sembrò uno schiaffo, un’umiliazione di questa speranza».

Si affida a un ricordo personale, l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini, aprendo il suo intervento alla presentazione del libro “Dalla Chiesa. Storia del generale dei Carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Mondadori editore).

Storia del prefetto “dei 100 giorni” trucidato la sera del 3 settembre 1982, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta della Polizia di Stato, Domenico Russo. Vicenda di un uomo, di un carabiniere famoso, ma anche di un padre e di un marito semplice e affettuoso in famiglia, raccontata con maestria dal giornalista del Corriere della Sera, Andrea Galli. Per l’occasione, l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano – dedicata a due servitori dello Stato anch’essi uccisi, i giudici Alessandrini e Galli – è affollatissima: ci sono i figli di Dalla Chiesa, tra cui il sociologo Nando che prende la parola nel dibattito, il prefetto di Milano Luciana Lamorgese, gli allievi che si formano per entrare nell’Arma e chi già veste la divisa, gli alti gradi non solo dei Carabinieri, magistrati, giovani delle scuole, tanta gente che ancora ricorda, a distanza di 35 anni, chi, come viene detto, «aveva capito tanto (forse troppo), semplicemente anticipando i tempi».

A parlare di colui che diede la vita per la legalità, sono figure note tra cui il direttore del “Corriere”, Luciano Fontana, Massimo Moratti – che fa memoria dell’amicizia nata allo stadio di San Siro –, il comandante della Legione Carabinieri Lombardia, Teo Luzi, già comandante provinciale a Palermo, il comandante generale dell’Arma, Tullio del Sette, che disegna un profilo insieme affettuoso e rigoroso di Dalla Chiesa, il magistrato Gian Carlo Caselli che ripercorre gli anni del terrorismo e del pentitismo e il rapporto proficuo con un Generale energico e determinato, capace di generare fiducia.

Ma dove trovava la sua forza l’ormai Prefetto di Palermo, pur nell’isolamento percepito in Sicilia? «Nella famiglia, nell’etica, nella fede».

Per questo l’Arcivescovo ne delinea la figura attraverso «quello che gli uomini non dicono, perché tutti possiamo dire quello che facciamo, gli incontri, le fatiche, il metodo di lavoro, ciò che si prova, i sentimenti». Ma, appunto, c’è qualcosa che non si può racchiudere in un libro e nemmeno spiegare a parole: come si sta « davanti a Dio, soli di fronte al Mistero difficile da decifrare».

Eppure, sottolinea Delpini, «questa è la verità più profonda, il segreto più necessario e meno esplorabile, tanto che molti nostri contemporanei rifuggono da questa domanda e ritengono la questione accademica».

Due i «sintomi», come li definisce l’Arcivescovo, da cui, tuttavia, emerge qualcosa di tale dialogo intimo con il Signore: anzitutto come un uomo si comporta di fronte al male. «Nel caso del Generale, un male organizzato per fare del male a qualsiasi prezzo. Il credente Dalla Chiesa si comporta come qualcuno che pensa che il male possa essere sconfitto senza mai scendere patti o compromessi. Questa tenacia della fiducia mi pare che trovi la sua radice non nel temperamento o nel senso del dovere, ma nel sapere che si è di fronte a Dio».

Poi, il secondo sintomo che si «può cogliere quando una persona deve confrontarsi con la morte, che, anche se oggi è una parola proibita, c’è» ed esiste, specie per le Forze dell’ordine che, come i Carabinieri, mettono in conto ogni giorno questa eventualità, «questa minaccia incombente».

Una morte che, per chi crede, «non è un finire nel nulla, l’evento per cui tutto perde senso, l’ultimo abisso. Chi sta davanti a Dio sa che è un passaggio doloroso, ma non è il definitivo annientamento. La lettera alla prima moglie Dora, già morta, dimostra che nel cuore del Generale, ella è viva, sente».

Per questo «anche lui, che sente la morte, vive questo confronto con il momento estremo come un evento in cui è seminata la speranza».

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