«In quei giorni ho imparato il potere dell’amore e dell’unità» ricorda mons. Edmund Whalen. Era in prima linea con la Chiesa a offrire un sostegno ai familiari delle vittime e ai soccorritori
di Maddalena
MALTESE
Il motto della scuola cattolica di Staten Island, dove mons. Edmund Whalen è preside, recita: «Uomini 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno». Chissà se i pompieri e i poliziotti che qui hanno studiato se lo sono ripetuto quella mattina dell’11 settembre 2001, mentre correvano, ignari o consapevoli del pericolo dentro le torri gemelle del World Trade Center di New York, appena centrato da due aerei. Ne sono morti 23 quando i due edifici si sono accartocciati e quei 23 nomi, ogni anno, ogni 11 settembre, vengono proclamati nell’anfiteatro della scuola: sono rimasti un modello per gli studenti.
Mons. Whalen era parroco nella chiesa di Saint Benedict nel Bronx. Dalle finestre della scuola adiacente Manhattan era ben visibile all’orizzonte e ben visibili sono diventati ben presto il fumo e le fiamme che si levavano nella parte sud dell’isola dopo l’attacco terroristico.
Cosa ricorda di quel giorno?
«La risposta del quartiere alla tragedia. La nostra chiesa è diventata un ricovero per gli operatori sanitari, i pompieri, la polizia e tutti coloro che erano ingaggiati nelle azioni di primo soccorso. Le strade erano chiuse e la gente ha camminato a piedi per ore prima di raggiungere la famiglia. In tantissimi hanno aperto le loro case per consentire una sosta o il riposo anche per i first responders (i primi soccorritori). E non dimentico la nostra parrocchia, strapiena di gente venuta a pregare. Noi abbiamo perso tanti parrocchiani ma tra noi non c’era rabbia o scoraggiamento, anzi cercavamo di incoraggiare le persone, di contattare le famiglie per consentire ai dispersi di raggiungerle e riunirsi. In quei frangenti ho colto che la forza veniva come non mai dalla nostra vocazione cristiana, dalla fede».
Come avete vissuto i giorni dopo la tragedia?
«C’era un sentimento unico che attraversava tutta la città ed era quello del prendersi cura. Prendersi cura degli agenti che lavoravano senza sosta e prendersi cura delle famiglie che avevano perso qualcuno o dei bambini di quelle mamme che cercavano il marito disperso. Ci sono state scene commoventi e non c’era rabbia o vendetta, ma un senso di unità, di responsabilità verso tutti, soprattutto verso quei piccoli che avevano perso un genitore: era di loro che dovevamo occuparci e non sull’onda dell’emozione ma anche dopo, nel futuro».
Immagino che tanti le chiedessero parole di conforto in quei momenti. Cosa diceva?
«È difficile spiegare, ma la cosa importante per tutti era stare insieme e non c’era neanche bisogno di troppe parole o di risposte. Amare l’altro era l’unico modo di dare senso a quello che non aveva senso, era dare una risposta a una perversione di una religione, era confortare…».
Lei, assieme ad altri sacerdoti, si è trovato in prima linea nell’offrire un sostegno. Che cosa facevate esattamente?
«Ci era stato chiesto di restare all’obitorio, un’enorme tenda bianca sull’East river, per pregare e benedire i corpi che venivano portati. E poi ci hanno chiesto di stare vicino ai soccorritori. Ricordo una notte fredda e piovosa, tra fine settembre e i primi di ottobre quando seduto su una borsa frigo bevevo punch caldo con una persona dell’agenzia governativa. Era agnostico. Ad un certo punto mi dice: “Quando tutto questo sarà finito, voglio parlarti a fondo e voglio capire il senso della tua presenza qui, perché fai quello che stai facendo”. Era colpito dal fatto che tanti dei pompieri o degli agenti o dei soccorritori accorsi per primi nelle torri e uccisi dal loro crollo fossero cattolici. “Loro sapevano a cosa andavano incontro e sono anche consapevoli che scavando tra le macerie quelle polveri li uccideranno – continuava il funzionario – eppure sono lì e non si muovono e non c’è rabbia o vendetta nel loro sguardo”. E io dentro di me pensavo a quei 23 morti appartenenti alla mia scuola che magari in quel momento si erano ripetuti che dovevano essere cristiani tutto il giorno e 7 giorni su 7. E infine mi ha detto: “Sono arrivati a tutte le ore e tu sei stato qui ad accogliere tutti con grande rispetto e cura. Deve esserci qualcosa nella tua religione per riuscire a trattare così le persone sia da vive sia da morte”. Mi sono commosso. La testimonianza del Vangelo non aveva bisogno di parole».
Lei è stato in quell’obitorio da settembre a novembre e immagino sia stato testimone di tanti momenti non semplici. Ne ricorda qualcuno in particolare?
«Ricordo la sera quando uno dei soccorritori mi chiese di celebrare una Messa perché alcuni di loro quella domenica non c’erano andati. Su quelle facce si leggeva chiaramente che molti non c’erano andati da tanto tempo eppure in tutti c’era una fame di Dio, una sete di risposte a dubbi e domande, il desiderio di parlare da uomo a uomo e di gridare a Dio dove fosse. Rispondere a tutto quel male con il bene ha cambiato il cuore di tanti ragazzi che erano lì, tanti si sono fatti domande, hanno riscoperto il valore della persona e la riverenza verso un Dio che si faceva trovare in quel presente perché non avevi altro. E lo stesso è continuato ad accadere in parrocchia dove si celebravano le Messe magari con una bara vuota, ma poi dopo mesi si trovava il corpo e si celebrava ancora. È stato un tempo lungo di perché».
Dopo l’11 settembre, come sono stati i rapporti con la comunità musulmana, vista la provenienza dei terroristi…
«Alcuni hanno avuto difficoltà nei rapporti, ma non nella nostra scuola dove non si distingue chi sia cristiano, musulmano o ebreo e tutti si vedono come persone. Le scuole hanno un grande ruolo nel sentire sociale perché possono instaurare tra i ragazzi un cameratismo che dura per la vita. A Staten Island c’è un bel rapporto con la moschea locale, ma tanto dipende dalla fede di un luogo, dai quartieri dove si vive, dal senso di comunità».
Come viene celebrato da voi l’11 settembre 2017?
«Coinvolgendo i ragazzi della scuola. Il rischio per loro è che questo fatto diventi storia da manuale, senza possibilità che ne facciano esperienza, come i loro genitori o i vicini. Celebro la Messa e faccio leggere i nomi delle vittime, perché sentano che è reale e non un evento estraneo. Alla fine spesso fanno domande vere e si meravigliano di quanto, in quei giorni, le persone hanno risposto e lavorato insieme per offrire solidarietà e aiuto».
Che lezione dovremmo imparare dall’11 settembre?
«Il potere dell’amore e dell’unità. L’11 settembre ha lasciato un marchio in ogni persona e c’è chi ha risposto con rabbia e chi invece ha trovato la fede. Noi proviamo a non dimenticare. Noi ricordiamo sempre i nomi degli ex allievi che sono morti quel giorno e li preghiamo: anche la squadra di basket, prima di ogni partita, passa in preghiera davanti al giardino con quei nomi, perché se hanno dato la vita come l’hanno data è perché l’hanno imparato tra questi banchi e sono diventati, in un certo senso, degli eroi. Queste sono persone vere ed è per questo che ho chiesto a ogni studente di scegliere un nome che lo accompagni nel cammino della vita, nei dubbi e nelle gioie».