L’Occidente che vuole dialogare con il mondo musulmano cerca interlocutori credibili. Quali figure incarnano una reale autorità? Ne parla il nuovo numero della rivista, in vendita dal 29 giugno
Nel mondo islamico diversi movimenti e correnti si contendono l’interpretazione dei Testi sacri e la leadership della comunità dei credenti, dal Nordafrica all’Indonesia, all’Europa. Chi è legittimato a definire i contenuti della fede e le norme della sharia? Il Califfato, rivendicato oggi dal sedicente Stato islamico, ha mai rappresentato la totalità dei musulmani? La moschea egiziana di al-Azhar è veramente la maggiore istituzione dell’islam sunnita? E chi sono i nuovi predicatori che oggi, attraverso canali satellitari e social media, costituiscono un riferimento spirituale per milioni di persone? Risposta che prova a dare il nuovo numero della rivista Oasis – «Chi parla per i musulmani» – a partire dal 29 giugno in vendita in libreria, su tutte le maggiori piattaforme online e sul sito www.fondazioneoasis.org dove è possibile abbonarsi e iscriversi alla newsletter quindicinale. Pubblichiamo un estratto dell’editoriale.
Anche a Milano il dialogo con l’islam è un tema sempre più centrale per istituzioni politiche e religiose cittadine. Qui come in altre città, politici e realtà civili e ecclesiali cercano interlocutori in un panorama di associazioni e organizzazioni islamiche frastagliato. Per quale ragione i musulmani europei non parlano all’unisono, come vorrebbero i nostri politici, si chiedeva qualche giorno fa il britannico Economist. La risposta è da cercare nella forma che l’autorità assume nell’islam, ed è quello che il nuovo numero di Oasis prova a fare.
Innanzitutto, un’autorità religiosa islamica esiste. Modesta controprova empirica: se non ci fosse, come si ripete spesso, questo numero di Oasis non dovrebbe semplicemente esistere: 144 pagine bianche e tante scuse al lettore per aver scelto l’argomento sbagliato. L’autorità – da non confondere con il potere – è una costante antropologica e nessuna cultura, nella misura in cui è anche tradizione, cioè consegna di un passato vivente, può prescinderne. Quello che nell’islam non c’è – o c’è meno – è una gerarchia; eppure anche qui la cautela è d’obbligo.
Per gli sciiti le cose sono relativamente semplici. La sacralità risiede nella persona di ‘Alī e dei suoi discendenti, gli imam, parola qui utilizzata nel senso forte e originario di “guida divina” – nulla a che vedere con l’imam della moschea sotto casa. Per i sunniti le cose sembrano complicarsi un poco. La sacralità risiede in un Libro, il Corano, e in un Modello, il Profeta dell’islam: dunque non in una figura umana contemporanea al credente, qual era in origine l’imam sciita, ma in un corpus di Scritture. A colmare lo spazio tra il testo e l’oggi interviene allora una diarchia. Da un lato il governante (prima il califfo, poi il sultano, oggi il presidente della Repubblica), dall’altro un gruppo informale di studiosi: ancora una volta gli ulema. Il sovrano necessita della legittimità che gli ulema gli conferiscono, ma gli ulema non possono sussistere senza un rapporto con l’autorità politica.
Ne risulta una polifonia di voci che è particolarmente evidente in ambito europeo, e che è fonte di più di un’inquietudine per le istituzioni, alla ricerca di interlocutori affidabili anche attraverso la creazione di nuovi istituti di studi religiosi nel tentativo di costruire un islam europeo. Questo tipo d’intervento statale, se mantenuto entro i limiti di quella distinzione tra sfera religiosa e politica che è un dato irrinunciabile dell’Occidente moderno, non è affatto estraneo alla tradizione islamica. Non si vede perché non dovrebbe valere anche per l’Europa quello che scrive l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid a proposito del Medio Oriente: «Gli Stati hanno tutto l’interesse ad avere istituzioni religiose forti, capaci di realizzare una grande riforma religiosa e di produrre un nuovo discorso religioso, che ripristini nella società la pace e la fiducia». Il problema è piuttosto che non basta allo Stato liberale avere questo interesse per riuscire a creare le istituzioni religiose di cui ha bisogno: il dictum di Böckenförde vale anche per i musulmani. E d’altra parte ai responsabili musulmani non è sufficiente l’appoggio dello Stato per accreditarsi presso la comunità dei credenti.
La via d’uscita da questo dilemma è stata indicata da papa Francesco nel suo viaggio in Egitto: da un lato, il Papa ha additato alle autorità politiche il compito di «condannare e sconfiggere ogni violenza e ogni terrorismo»; dall’altro ha ricordato ai responsabili religiosi che «siamo chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto», perché «l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!».
Solo a questa duplice condizione lo Stato svolgerà il ruolo di servizio alla pace che gli compete e l’autorità religiosa potrà essere autenticamente autorevole e feconda.