Per il sociologo della Cattolica Mauro Magatti non aiuta la crescita economica e provoca danni

di Pino NARDI

Centro commerciale

«La cultura del consumo non ha prodotto crescita, anzi. Quindi anche sul piano economico l’apertura domenicale non è destinata a produrre grandi risultati. Naturalmente si deve insistere anche sulla dimensione collettiva della festa: non è tanto di riposo fisico, quanto di attività che hanno un rilievo sociale». Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia dell’Università cattolica, riflette sull’apertura indiscriminata dei negozi alla domenica, come il decreto di Monti paventa. E boccia su tutti i fronti questa eventualità.

La scorsa settimana si è svolta un’iniziativa europea per preservare la domenica, promossa da diverse Chiese e dai sindacati. Come valuta questa mobilitazione che va al di là del tradizionale impegno ecclesiale?
La considero molto importante, perché ha un valore non solo simbolico. C’è un’antica sapienza che nasce dalla cultura ebraica e si manifesta successivamente nel cristianesimo e nell’islam: l’idea che esista la necessità, non solo per ragioni fisiche (ricostituzione materiale del lavoratore), di interruzione delle attività mondane. Avere un tempo che non è solo individuale, ma collettivo, di interrogazione, di senso, di ricerca, di attenzione verso altre dimensioni. È un elemento fondamentale della libertà, una questione molto importante, preziosa e rilevante.

Tuttavia c’è molta preoccupazione sul decreto del governo sulle liberalizzazioni, che prevede l’apertura dei negozi 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Non c’è il rischio che il tempo dedicato al riposo e alla famiglia venga minato e vada a colpire in particolare anche persone, come le mamme, costrette a lavorare di domenica?
Sì, certo. Non credo che immaginare un sistema economico che gira 24 ore su 24 per 7 giorni alla settimana sia la soluzione dei nostri problemi. Anzi avremmo danni dal punto di vista spirituale e della qualità della nostra vita. Le difficoltà economiche si devono risolvere organizzando meglio l’economia, sciogliendo le tante forme di rendita in questo Paese, concentrandoci sugli investimenti invece che sugli sperperi. Ci sono molte altre cose che si devono fare prima di cancellare elementi di civiltà come la domenica o il riposo».

Anche perché questa apertura non vuol dire poi posti di lavoro in più…
Infatti. Tra l’altro c’è un’aggravante: l’Italia – che è lunga – è una società e un’economia basate sulle piccole imprese, sul territorio, sul lavoro familiare. È chiaro che il modello che si vuole introdurre è di un’altra cultura, dove c’è tutto lavoro dipendente e le imprese sono grandi società. Insomma, è un altro modo di pensare la vita. Non credo che dobbiamo sacrificare la nostra cultura per una maggiore efficienza economica. Dobbiamo invece raggiungere una più alta efficienza rispettando e semmai valorizzando la nostra cultura.

Come si può allora superare la logica della domenica trascorsa al centro commerciale, per cui tutto viene sacrificato al consumo? Come riscoprire la dimensione della festa?
Nei 20 anni che abbiamo alle spalle, le società occidentali hanno spostato l’accento dal lavoro al consumo e dall’investimento alla rendita. La via principale per uscire dalla crisi è fare l’operazione inversa. Allora il problema non è semplicemente stimolare il consumo, ma ridurre gli sprechi, tornando a investire sul futuro, favorendo chi fa ricerca. Tutto ciò non ha niente a che fare con la domenica sempre aperta. Ci lamentiamo che non abbiamo il senso delle istituzioni, ma questo si costruisce anche attraverso momenti collettivi di festa. Citando la Caritas in veritate, la festa che è un tipico luogo del dono, alla fine si scopre che non è sprecare il tempo, è recuperare dimensioni non economiche che danno anche un contributo di cornice a rendere una società coesa, a stimolare comportamenti di fiducia reciproca e di serenità.

Milano tra qualche mese sarà capitale mondiale delle famiglie. Il tema sarà appunto famiglia, lavoro e festa. Quale contributo potrà dare questo grande evento?
Spero che uno dei messaggi sia proprio questo. Lo abbiamo imparato dalla grande crisi finanziaria (lasciamo stare il caso italiano che ha specificità locali): la crescita economica separata dalla crescita sociale, lo sviluppo tecnico separato dalla coltivazione dello spirito, non stanno in piedi. Lo sapevano gli antichi e tendiamo a dimenticarlo. La festa è un momento – sia nei suoi risvolti religiosi sia in quelli civili – molto prezioso, svolge una serie di funzioni e dà diversi contributi; la famiglia – che è quell’anello così delicato e prezioso che consente di collegare le generazioni – è fondamentale, perché altrimenti succede come in questi 20 anni in Europa, che si produce reddito ma si invecchia e ci si dimentica di curarsi delle nuove generazioni. Alla fine ci si trova in una società che è ingestibile dal punto di vista economico, proprio perché non ha curato l’aspetto del legame tra le generazioni. Un pensiero troppo restrittivo, una ragione troppo ottusa, finisce per dimenticare dimensioni che sono preziose e che rispettare le quali favorisce lo sviluppo economico nella sua integralità.

Questo insistere della Chiesa sul tema della domenica quindi va oltre la dimensione religiosa e guarda anche alla tenuta della coesione sociale…
È sempre stata la forza delle religioni, in particolare di quella cristiana: non è che si fanno discorsi campati per aria che non c’entrano niente con la condizione umana o con l’evoluzione storica. La religione parla dell’al di là, ma anche dell’al di qua. In questo senso non è che gli unici titolati a parlare del modo di organizzare la vita siano le imprese piuttosto che le istituzioni. Anche le religioni, che sono una parte centrale della nostra esperienza e storia, hanno molto da dire e da insegnare.

Ti potrebbero interessare anche: