Nel suo ministero l’arcivescovo Martini ha contribuito alla ricerca su alcuni nodi profondi del vivere

di Guido FORMIGONI
storico

Carlo Maria Martini, arcivescovo per più di vent’anni (1980-2002), ha accompagnato la Milano che usciva dai corruschi e appassionati anni Settanta (non solo, ma anche di piombo), la Milano “da bere” del benessere e dell’illusoria postmodernità, la Milano dei passaggi drammatici di Tangentopoli e della crisi di un’intera classe dirigente, la Milano rancorosa dell’identità localista. Ha esercitato lungo tutti questi anni un magistero discreto, umile, appassionato, capace di parlare a credenti e non credenti, che è quindi diventato in qualche modo un modello vivente di come la Chiesa si possa e si debba rapportare alla “città dell’uomo”. Un punto di riferimento nazionale e anche ben più che nazionale.

Il suo approccio sapienziale alla città e alla società è scaturito sempre spontaneamente dalla radice biblica ed eucaristica della sua vita e della sua riflessione. Per cui i discorsi alla città, tipici della solennità di Sant’Ambrogio, sono sempre stati intessuti non a caso di riferimenti alle lettere pastorali che annualmente scandivano la sua proposta di priorità rivolta alle comunità cristiane ambrosiane. E si nutrivano della memoria di Ambrogio, pastore di una chiesa in tempi di transizione.

Ecco allora che il primo ciclo di cinque lettere che invitava a concentrarsi sui pilastri dell’esperienza cristiana (dimensione contemplativa della vita, parola di Dio, eucarestia, missione, carità, dispiegate tra 1980 e 1986), si integrava con la proposta iniziale di un magistero alla città che insisteva sulla riconciliazione rispetto ai duri conflitti degli anni Settanta, cercava gli spazi della solidarietà in una città condizionata dalla rivoluzione neoliberista, rifletteva sulla pace di fronte alle ultime tensioni della guerra fredda, si apriva all’accoglienza del diverso e dell’immigrato.

Il secondo ciclo delle lettere pastorali dedicate agli atteggiamenti  di fondo della vita cristiana (educare, comunicare, vigilare), che corsero dal 1987 al 1993, si intrecciò con una serie di discorsi alla città sempre più puntuali e radicali, rispetto alle trasformazioni dell’epoca. Si pensi agli interventi sulla nuova stagione di educazione alla politica dei giovani cristiani, sulle inedite prospettive di unità dell’Europa derivanti dagli eventi del 1989 europeo, sulla rinnovata attenzione alla solidarietà di fronte alle minacce antisolidaristiche, sui rapporti con l’islam tra dialogo religioso e necessità di costruire forme vivibili di un incontro pratico, sull’attenzione al futuro in tempi di incertezza e rassegnazione, sulla legalità minacciata dall’ondata di corruzione.

Questi sono anche gli anni dei primi tentativi di sintetizzare un metodo attorno ad alcuni punti fermi, collegati anche alla celebrazione del sinodo diocesano e alla proposta ormai decollata della “Cattedra dei non credenti”. La lettera per la città intitolata “Alzati e vai a Ninive” del 1991 esprimeva questa consapevolezza con un ragionamento approfondito sulle condizioni dell’evangelizzazione in una situazione intermedia tra cristianità e secolarizzazione, approdando a identificare il punto critico nello “stile pastorale” (uno stile comunicativo, di amorevole discernimento, di irradiazione e di accoglienza).

Ecco allora l’ultimo ciclo, in cui l’apertura al Giubileo del 2000 e alla proposta di papa Giovanni Paolo II di dedicare attenzione progressiva alla Trinità strutturava una riflessione magisteriale che toccava i punti più alti nel rivolgersi alla città. Restano pagine cruciali quelle dedicate al rapporto tra silenzio e parola della Chiesa, che approdarono a proporre – da “serva inutile”, umile e grata – un allarme sulle condizioni etiche della convivenza, anche nelle loro ricadute istituzionali e politiche. Allarme bilanciato dall’esortazione a coltivare il grande “sogno” del futuro, senza fuggire dalle responsabilità nel presente, prendendo sul serio le paure del nuovo millennio, amplificate dal terrorismo omicida dell’11 settembre, ma costruendone operosamente le speranze.

Un magistero confermato negli ultimi dieci anni di vita da Arcivescovo emerito, quando ha saputo alternare sapientemente silenzi e parole, contribuendo alla ricerca su alcuni nodi profondi del vivere cristianamente l’umanità (da un approccio non scontato alle questioni bioetiche, fino agli spunti sofferti sulla malattia e la morte). Un maestro autorevole che andava oltre ogni ideologia, un pastore credente che si faceva interrogare dal “non credente che era in lui”, un duraturo punto di riferimento per un volto di Chiesa fedele all’umanità perché fedele al Signore. (Agenzia Sir)

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