Don Giancarlo Quadri, prete ambrosiano, cappellano del Centro pastorale fedeli italiani nella capitale belga, interviene a caldo dopo le stragi all’aeroporto e alla metropolitana: «Qualche mese fa con l’altro attentato c’era stata una reazione piuttosto sdegnata, adesso invece si tende di più a dire: “Se capitasse a me? Nel mio quartiere?”».
di Luisa BOVE
È salito a 34 morti e oltre cento feriti il bilancio degli attentati di questa mattina a Bruxelles: il primo alle 8 all’aeroporto internazionale Zaventem e il secondo al metrò alla fermata di Maelbeek la più vicina agli uffici dell’Unione europea. Una vera strage già rivendicata dallo Stato islamico. Abbiamo raggiunto al telefono don Giancarlo Quadri, già responsabile della pastorale dei migranti nella Diocesi di Milano, che da due anni vive a Bruxelles dove svolge il suo lavoro come cappellano del Centro pastorale fedeli italiani. «Non è facile descrive il clima in questo momento – ammette il sacerdote -, c’è il clima spirituale del Belgio, ma anche il clima interno che tende alla paura».
Che cosa è cambiato?
Qualche mese fa con l’altro attentato c’era stata una reazione piuttosto sdegnata, adesso invece si tende di più a dire: “Se capitasse a me? Nel mio quartiere?”. Si sta diffondendo la paura, come se fosse inevitabile. Visto il panorama di Bruxelles e la sua importanza come capitale europea, è come se dovessimo essere il centro, il bersaglio. Sono le battute ascoltate anche questa mattina alle fermate dei tram, che orami non camminano più. Insomma, è come se dicessero: “Siamo qui, siamo a Bruxelles, quindi è inevitabile che se la prendano con noi”.
Colpire Bruxelles, al di là del significato simbolico, fa pensare anche a una rivendicazione dopo l’arresto di Salah Abdelslam, l’attentatore di Parigi arrestato nei giorni scorsi…
Sì. Anche se, secondo me e secondo tanti altri, era già programmata. Al di là di tutto penso che Bruxelles sia il simbolo di qualcosa contro cui si vogliono scagliare. Ripeto, sono tutti commenti a caldo che si fanno in questi momenti.
Gli attentati degli ultimi mesi in Francia e in Belgio sembrano avere uno scopo preciso: quello di seminare terrore e creare panico nel mondo occidentale.
Io credo che sia proprio questo lo scopo. Vogliono diffondere la paura. Il timore che non siamo al sicuro. Crediamo di esserlo perché siamo ricchi, abbiamo tante imprese… La paura è difficile da vincere e quando si impadronisce delle persone… infatti questa mattina ho visto poca gente in giro, anche in centro dove sono stato. Quando si ha paura si fa così, ci si nasconde. Questa sera era prevista la Messa crismale alle 19.30 in cattedrale, ma ci hanno detto di tenerci pronti perché nel pomeriggio ci avviseranno se il Vescovo decide di sospenderla, anche perché non essendoci i mezzi diventa difficile arrivare tutti in centro e con le auto sarebbe un disastro.
La Chiesa in questo momento che ruolo gioca?
Io ci sto pensando molto. Tutto sommato mi sembra che la relazione interreligiosa c’è, anche se non troppo curata rispetto all’esperienza di Milano con il cardinal Martini e poi con gli altri Arcivescovi. Qui il vivere insieme era ormai assodato da anni: ognuno ha il suo Dio, la sua religione e i suoi riti. Ora questi attentati mettono in discussione tutto questo. Quando sono arrivato a Bruxelles ho visto una grande presenza di immigrazione, molto di più rispetto ad altri Paesi in cui sono stato e anche di Milano, ma ho trovato pure molta più presenza di religioni. La convivenza mi sembrava talmente tranquilla che mi meravigliavo un po’: i musulmani vanno in moschea, i cristiani nelle diverse chiese, ebrei e buddisti nei loro templi… Adesso mi pare che questa impostazione stia traballando. Quando per esempio hanno catturato Salah, in quartiere si è assistito anche alla saturazione da parte della gente per questo assedio poliziesco. Forse questo è l’altro obiettivo che si prefiggono i terroristi: mettere in crisi un mondo in cui si era costruita spontaneamente una buona convivenza. Ora se riescono a mettere in crisi anche questo, sarebbe molto grave perché a Bruxelles si viveva bene con le diverse presenze religiose.
In due anni di attività pastorale a Bruxelles qual è la sua esperienza?
I cattolici sono pochi (le ultime statistiche parlano del 3% persone che frequentano), però sono bravi, seri, impegnati e mettono in campo iniziative di evangelizzazione. Ora se anche questo va in crisi, forse bisognerà ripensare cosa fare in Europa. Personalmente stimo molto l’esperienza di Bruxelles, diversa è l’impostazione fuori città. Nelle tre unità pastorali in cui sono inserito ci sono gruppi molto responsabili. Alla fine dell’anno si riuniscono una trentina di persone della stessa unità pastorale in un’abbazia fuori Bruxelles e per tre giorni si chiedono che cosa abbiamo fatto, che cosa abbiamo sbagliato, in che cosa dobbiamo correggerci. Poi c’è una bella testimonianza anche verso i rifugiati, senza fare tante storie e lavorando molto. Qui si chiede tranquillamente a Messa chi ha un appartamento da mettere a disposizione. C’è una forte responsabilità dei laici, ma è come se dicessero: “Noi siamo quelli che comandiamo, che abbiamo in mano tutto”. Invece dobbiamo correggere questa visione e renderci conto che siamo il seme, il lievito: faremo fermentare la massa, ma senza la pretesa di essere il tutto. È un bel cammino.