In occasione della 59esima Giornata Mondiale delle Vocazioni, a Milano, i giovani hanno camminato insieme per le vie della città in un percorso aperto dall’Arcivescovo

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di Annamaria BRACCINI

La vita che è vocazione, perché tutti, ciascuno con i propri carismi e debolezze, è chiamato a portare conforto a un’umanità malata. Alla vigilia della 59esima Giornata Mondiale delle Vocazioni, è questo il messaggio che l’Arcivescovo lascia ai giovani della Zona pastorale I-Milano, che scelgono di camminare insieme per le vie della metropoli partendo da quello che Leonardo da Vinci aveva definito l’“umbilicus” di Milano e arrivando ai Navigli. È, infatti, dall’antica e suggestiva chiesa del Santo Sepolcro che muove la camminata vocazionale proposta dalla Pastorale giovanile con il titolo “Fare la storia”, mentre iniziative simili si svolgono anche in altre Zone della Diocesi.

«Il motivo per essere qui insieme è il nostro incontro con Gesù crocifisso e risorto», sottolinea il responsabile della Servizio per i Giovani e Università, don Marco Fusi, aprendo il primo momento dei 3 in cui si articola il percorso. Un itinerario che fa tappa anche nella basilica di sant’Eustorgio, dove a raccontare la loro esperienza sono Matteo e Marta, una giovane coppia di sposi, e nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie ai Navigli, in cui portano la testimonianza Alice, assistente sociale che ha intrapreso la via della consacrazione nelle Piccole Apostole della Carità, e don Enrico, diacono ambrosiano che di diventerà prete il prossimo 11 giugno. Decisioni, tutte queste, che impegnano la vita con un “sì” definitivo – nel matrimonio, nella consacrazione laicale, nel sacerdozio -, ma che portano l’unico sigillo della vocazione.

La Parola di Dio e brani degli scritti di papa Francesco guidano la preghiera. Alla lettura del Vangelo di Marco nel capitolo 16, con l’apparizione di Gesù agli 11 apostoli, si ispira la breve riflessione dell’Arcivescovo che parla di «una missione che comincia dalle sconfitte», proprio per quell’essere 11 discepoli e non 12.
«È il riconoscimento che uno manca perché si è tolto la vita dopo il tradimento. Questo primo inizio della Chiesa parte da un’assenza, da un’inadeguatezza per un fatto tragico». E, poi, «questi stessi 11 non erano eroi o persone dotate di particolari qualità tanto che Gesù li rimprovera per la loro durezza di cuore e per la loro incredulità su ciò che è essenziale, la risurrezione».

Un monito e, insieme, un’indicazione chiara.
«Noi che cerchiamo una risposta al desiderio di fare del bene, che vorremmo interpretare la nostra vita come una vocazione, siamo deboli, gente di poca fede, ma Gesù si fida dei discepoli e gli affida ciò che ha di più prezioso, la missione. Questo ci può incoraggiare: il sepolcro è vuoto e Gesù ci incontra. Qualunque sia la vostra scelta di vita, l’energia, le doti che possedete, la stima che avete di voi stessi, ciò che vi rende missionari è l’incontro con il Signore che ci prende così come siamo».

Quindi, anche con le paure e tanti complessi dell’età giovane
«Gesù ci manda verso un’umanità ferita, non a compiere imprese gloriose o a renderci famosi per qualche particolare risultato, ma perché noi possiamo essere missionari della sua compassione».

Da qui, la raccomandazione del vescovo Mario. «Mentre camminate per le strade di Milano vi suggerisco di confidarvi gli uni gli altri, con le vostre debolezze, fragilità, paure; parlate della vostra fede, della vita, di ciò che fate ogni giorno. Forse siete imbarazzati e questo vi mette un poco in difficoltà, ma ricordate che Gesù si fida di voi e vi affida la cosa più preziosa: andare verso l’umanità malata. Nel nome del Signore portate conforto e confidate sia la vostra fragilità, sia la compassione che Gesù vi ha messo nel cuore. Site benedetti, perché siete una benedizione».
E, così, usciti di chiesa, i ragazzi si incamminano due a due tra la gente e il traffico caotico di un venerdì sera di pioggia, condividendo la fede e, come ha chiesto il vescovo Mario, le loro giovani vite.

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