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Redazione

Testimonianza di Alberto Comuzzi

«C’è ancora un posto per Cristo nei mass media tradizionali? Possiamo rivendicare un posto per Lui nei nuovi media?», si chiedeva l’11 maggio 1997 Giovanni Paolo II nel suo messaggio per la 31.ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. I quesiti sono tuttora aperti e riguardano in particolare coloro che governano e gestiscono i media, a cominciare da quella speciale categoria di professionisti che sono i giornalisti.

Nello stesso messaggio il Papa ricordava poi come «nei media sembra diminuire la proporzione di programmi di ispirazione religiosa e spirituale, programmi moralmente edificanti e che aiutino le persone a vivere meglio la loro vita».

Ragione per la quale, argomentava Giovanni Paolo II, «non è facile mostrarsi ottimisti sull’influenza positiva dei mass media quando questi paiono piuttosto ignorare il ruolo vitale della religione nella vita della gente, o quando le credenze religiose vengono da essi sistematicamente trattate in forma negativa e indisponente», fino al punto che «alcuni operatori dei media, specialmente nel settore dell’intrattenimento, sembrano spesso propensi a porre i credenti nella peggiore luce possibile» .

E’ profondamente scorretto ignorare o negare la funzione pedagogica esercitata dai media. I messaggi veicolati dai mezzi della comunicazione creano consenso e stili di comportamento che si traducono in scelte di vita. Non è vero che giornali, televisione e pubblicità siano lo specchio “neutrale” dell’immagine “vera” della società.

E’ l’esatto contrario: la società è pesantemente plasmata dai media. Quando un lettore acquista un giornale si prende ciò che gli dà chi l’ha confezionato. Quando uno spettatore si sintonizza su un canale televisivo si espone a un messaggio che altri hanno predisposto per lui. Nel circo mediatico il peso della responsabilità dei valori (o disvalori) proposti, pende tutto nel piatto della bilancia su cui stanno appollaiati i professionisti della comunicazione. Al di là delle enunciazioni verbali, qual è il tasso di eticità presente in coloro che fanno informazione o che vivono di comunicazione?

Specularmente c’è poi da chiedersi: se è vero che buona parte della stampa periodica e l’intero sistema della televisione privata sono orientati al mercato, dentro queste aree che margini di discrezionalità esistono per poter proporre i valori evangelici?

A un giornalista, un pubblicitario o a un qualsiasi altro operatore del mondo mediatico che sia davvero credente non resta allora che l’esempio della testimonianza. Non è cosa da poco, anche perché vivere coerentemente la propria fede, oltre che personalmente difficile, suscita spesso l’irritazione dei concorrenti e, ancor di più, dei cosiddetti colleghi.

Non diversamente da quanto accade in tutte le realtà umane, anche per chi fa parte del consesso mediatico vale l’unica regola importante: comportarsi con coscienza per salvarsi l’anima; ma, ci sentiremmo di chiosare, non come quel tale che assicurava «d’avere la coscienza immacolata perché, nella sua vita, non l’aveva mai usata».

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