Redazione
Non dobbiamo solo riflettere sul come stare accanto a chi soffre, ma anche interrogarci sulle stesse nostre debolezze di comunità di credenti che stentano a vivere da buoni samaritani… A Verona la Chiesa si rinnoverà se saprà cogliere i segnali che provengono dal mondo dei poveri, ma anche da quello dei giovani, che sono «per la Chiesa un dono speciale dello Spirito Santo».
di Vittorio Chiari,
direttore del Centro salesiano “San Domenico Savio” di Arese
È arduo condensare in poche righe la riflessione sull’ambito della fragilità umana, su cui la Chiesa è invitata a confrontarsi nel Convegno di Verona: esiste tutta una letteratura che canta la fragilità dell’uomo, da Dio creato limitato in tutto fuorché nel dolore. Ma perché Dio gli ha dato un’esistenza così fragile da essere erba che al mattino verdeggia e alla sera dissecca?
In molti l’esperienza del dolore ha chiuso le porte alla speranza, vietando l’incontro con il Creatore; in altri il Dio risorto è stata l’uscita di sicurezza dalla disperazione, anche per l’incontro con persone che ne hanno condiviso la sofferenza. Il Convegno non darà risposte esaustive al problema del dolore, ma ci farà riflettere sul nostro stare accanto a chi soffre, secondo lo stile del Vangelo.
Il Convegno ci invita a riflettere sulle risposte da dare ai nuovi poveri, su come coinvolgere le comunità cristiane a farsi prossimo di chi nella fragilità si trova solo, disperato, anziano, malato, giovane e piccolo che si sente orfano di genitori vivi, nato quasi per caso. Ma anche a interrogarci sulle stesse nostre fragilità di comunità di credenti, che stentano a vivere da buoni samaritani, deboli per scarsa fede o impaurite dalle culture che ci circondano.
Ma la fragilità di cui si parla è pure la fragilità dei nostri tempi, resi più “forti” dal progresso tecnologico e scientifico, che fanno sentire l’uomo “onnipotente”, bensì più fragile nei rapporti con le persone, angosciato di fronte al tempo che non riesce a dominare, alla natura che, ferita, gli diventa matrigna. Si tratta di una cultura che, nella sua arroganza, sfida Dio in cui non crede o tenta di eliminarlo dal proprio orizzonte per sentirsi più libera. Non una cultura da torre di Babele, ma quella che si abbarbica alla terra e non vuole faticare per toccare il cielo, in cerca di una felicità impossibile legata al subito, all’oggi, senza un “oltre”.
La Chiesa deve scontrarsi con questa cultura che, rifiutando Dio, rifiuta l’uomo, che non accetta la sfida della povertà, della fame, delle malattie, del sottosviluppo, insieme alle sfide che provengono dallo sfruttamento dei bambini nei volti tragici dell’emarginazione, del lavoro minorile, del turismo sessuale, della mendicità, dei ragazzi e ragazze di strada, dei bambini soldato, della mortalità infantile. La risposta che deve dare la Chiesa è quella della speranza, annunciando Cristo risorto e vincendo il «sentimento di frustrazione, di insoddisfazione di tutto e di tutti», di cui ha parlato Benedetto XVI ai giovani di Colonia lo scorso anno.
La fragilità che l’uomo teme è anche quella legata alla mancanza d’amore, di relazioni vere: è l’amore che fa esistere, che dà gioia all’esistenza, che permette di sperare oltre ogni speranza; amore che per i cristiani ha origine in Dio, si alimenta nell’Eucaristia, è forte del perdono nella Riconciliazione. L’amore ha gli occhi di Dio, che non divide il mondo in due, amici e nemici, primi e ultimi; ha il cuore di Dio che ama i peccatori; ha le mani di Dio che rialzano chi è caduto; ha i piedi di Dio per andare in cerca della pecora perduta. È l’amore che vince la fragilità del debole: amore che nasce dallo Spirito Santo Dio. Ma la sfida epocale che ci attende è quella di salvare Dio nel mondo che l’ha messo in disparte ed è la carità che lo salva agli occhi di chi lo vuole morto per sempre.
A Verona la Chiesa si rinnoverà se saprà cogliere i segnali che provengono dal mondo dei poveri, ma anche da quello dei giovani, che sono «per la Chiesa un dono speciale dello Spirito Santo». Spesso sono segnali di morte quelli che captiamo, dovuti alla mancanza di testimoni credibili nella famiglia e nella società, che ha reso molti giovani eroi fasulli da reality show, fragili come cristalli di Murano, per nulla protagonisti nel quotidiano e spacconi il sabato sera, in fuga dalle responsabilità e dalla vita quando la loro fragilità diventa insopportabile e il mal di vivere li porta a scelte violente contro se stessi. Ma captiamo, a volte, anche i segnali forti di chi ha scelto di vivere come “sentinella del mattino” o come operatore della carità, contestando in modo duro la cultura del benessere, del consumismo che allontana dalle persone e rende precario e fragile anche l’amore.