Sono le cifre distintive del suo episcopato vissuto con noi e per noi, le ragioni di una stima che il tempo trascorso non offusca e di una presenza sempre viva nel nostro cuore
di Giuseppe
GRAMPA
da «Il Segno» - febbraio 2020
A quarant’anni dall’ingresso in Milano dell’arcivescovo Carlo Maria Martini, quali le ragioni di una stima che il tempo non offusca? Tenterò di illustrarle senza dimenticare che quegli anni conobbero anche critiche come quelle espresse da don Julian Carron, presidente della Fraternità di Cl: l’episcopato di Martini, così come quello del suo successore Tettamanzi, avrebbe prodotto «una crisi profonda della fede del popolo di Dio». Ricordo l’episodio perché in quella occasione una larga parte del clero diocesano firmò una lettera di cordiale apprezzamento per i due arcivescovi.
La prima ragione di una stima che il tempo non offusca può sembrare ovvia: a Milano Martini ha detto il Vangelo, solo il Vangelo. Queste parole riprendono l’augurio che don Giuseppe Dossetti rivolse quarant’anni fa al neo Arcivescovo. Anche per quegli anni valeva il giudizio del grande scrittore francese Paul Claudel (1868-1955): «Fra i cristiani il rispetto per la Sacra Scrittura è senza limiti, ma esso si manifesta soprattutto con lo starne lontani!». Martini ha lavorato perché la nostra Chiesa fosse, come voleva il Concilio, «in religioso ascolto della Parola». Lo ha fatto con quell’esperienza – davvero straordinaria – che è stata la Scuola della Parola, immagine di una Chiesa che è anzitutto “serva della Parola”. Martini ci ha invitato tutti a leggere la parola di Dio con la matita in mano, per non smarrire neppure una sillaba e ritrovare nel testo non i nostri pensieri, ma il messaggio di Dio.
La seconda ragione: il 17 novembre 1987 Martini diede inizio alla Cattedra dei non credenti. Un titolo che suscitò non poche perplessità, ma che esprimeva una sua radicata persuasione: la verità non è proprietà esclusiva di nessuno, nemmeno dei credenti. E questo perché in ogni credente abita un non credente, con i suoi dubbi e i suoi interrogativi. E rivolgendosi ai non credenti chiedeva di riconoscere e dare voce al credente che abita ogni uomo. Nell’esperienza della Cattedra ritrovo lo stile con cui Martini si rivolgeva al suo e nostro tempo, la sua singolare capacità di ascolto e rispetto di ogni posizione e la passione per il dialogo. In lui la fede non si sostituiva alla fatica dell’intelligenza, non legittimava mai il ricorso a soluzioni precostituite, magari da ricavare dal testo biblico. Anzi, confessava i suoi limiti: «Verso la città e il territorio ammetto d’aver spesso faticato a comprendere i complessi meccanismi politico-sociali in atto… Pur avendo desiderato di essere presente e di declinare la Parola in relazione ai fenomeni emergenti… mi domando se non si poteva fare di più».
Una terza ragione, un altro tratto dello stile di Martini, sorprendente in un uomo che, per gran parte della sua vita, era salito in cattedra in prestigiose università e poi fu per oltre vent’anni su quella di Ambrogio e Carlo. Da un “uomo della cattedra” non ci aspetteremmo una singolare disponibilità all’ascolto, in particolare nei confronti dei giovani: «Ai giovani non possiamo insegnare nulla, possiamo solo aiutarli ad ascoltare il loro Maestro interiore… La questione che più tocca la sensibilità dei giovani è se li prendiamo sul serio come collaboratori a pieno titolo o se vogliamo farli ravvedere, come se fossero stupidi o in errore». E come rispondendo a una richiesta dei giovani aveva “inventato” la Scuola della Parola, così sempre per e con i giovani volle l’Assemblea di Sichem e il percorso del Gruppo Samuele. «Il metodo giusto non è predicare alla gioventù come deve vivere per poi giudicarla, con l’intenzione di cercare di conquistare coloro che rispettano le nostre regole e le nostre idee – diceva -. L’essere umano che incontro è fin da principio un collaboratore e un soggetto. Dialogando insieme giungiamo a nuove idee e a nuovi passi condivisi».
Ventidue anni con noi e per noi. Poi gli anni di Gerusalemme: quanti pellegrini milanesi lo hanno incontrato e da lui hanno imparato – io per primo – ad amare quella città! L’inesorabile progresso della malattia lo riportò di nuovo in mezzo a noi, tra i suoi confratelli dell’Aloisianum di Gallarate. Anche lì tanti lo hanno cercato e incontrato. Molte volte, insieme all’amico comune don Giovanni Barbareschi, abbiamo concelebrato con lui l’Eucaristia e poi conversato, fino a un mese prima della morte, quando ci confidò: «Ho già due successori (i cardinali Tettamanzi e Scola, ndr), ma ho ancora la Diocesi nel mio cuore…». Anche noi, padre Carlo, l’abbiamo nel cuore.