Una riflessione in vista della celebrazione giubilare in programma, alle ore 18, nella basilica di San Pietro, con lo scopo di «asciugare i volti rigati dalle lacrime di una sofferenza fisica o spirituale portando consolazione e speranza»

di Cristiana DOBNER

papa francesco

Esibizionismo? Retorica? Indubbiamente qualche voce si alzerà come vento contrario in una giornata dal clima solare. Chiunque però sia sincero e onesto con se stesso, non può negare che la sofferenza abbia attraversato e pesato sulla propria esistenza.

L’aspetto consolatorio proposto non conosce il retrogusto del voler placare per starsene tranquilli e allontanare i problemi o, peggio, le persone noiose che tornano e ritornano sulle loro sofferenze, siano essere presunte o reali.

Consolare non significa giungere alla quadratura del cerchio, eliminare la placca che si addensa nell’anima, significa “insieme”, espresso da “con” e da “consolare” cioè “confortare”. Quindi rimanere vicini, saper ascoltare, entrare in empatia e comprendere, non nel senso dell’afferrare e del dominare ma in quello dell’intuire e del partecipare.

Vuol dire uscire dal proprio guscio, dal carapace in cui ci si rifugia quando qualche cosa duole o ottenebra la mente e chiude il cuore. Uscire per esporsi non per divulgare, per pubblicizzare platealmente, ma per far conoscere a una persona amica quanto è greve e che, talvolta, non può trovare altra strada che nello sfogo delle lacrime.

Francesco vuole giungere con la preghiera, cioè con l’apertura del cuore di tutti all’irruzione salvifica di Dio nella storia di ciascuno e di ciascuna, a concretare una delle opere di misericordia che, forse, è la più negletta, proprio perché la più difficile: “Consolare gli afflitti”.

Riconoscere le lacrime altrui imbarazza, perché si rischia di ferire ancora di più, si tocca con mano una debolezza che, probabilmente, vorrebbe rimanere privata.

Invece se le lacrime si fondono, cresce un’amicizia nuova che è forza propulsiva per avanzare nella vita. È dono grande che può sfociare in un dono ancora più grande, più profondo, che supera ogni limite insito nella natura umana.

Le lacrime sparse dalla Vergine Maria non possono essere dimenticate se andiamo con la memoria alla Passione del Figlio. In questo dolore, in questo spasimo, tutti possiamo ritrovarci.

Non è immaginazione fantasiosa pensare che tutti i rivoli di lacrime, sparsi da noi umani nel corso dei secoli, siano confluiti nel dolore salvifico di una Donna, proprio come noi, che seppe accogliere il mistero di un Dio che diventava Uomo e faceva la fine dei delinquenti condannati.

Ritrovarsi e riconoscersi in questo dolore ci affratella e ci consente di guardare con uno sguardo puro e purificato al dolore altrui per diventare sostegno vitale, pellegrino dai piedi nudi che non esita a donare quel poco che possiede per muovere i passi insieme e non rimanere isolato e incapsulato.

La fatica condivisa diventa propellente, genera una speranza che schiude al mistero di quel Dio che non è il “motore immobile” e impassibile che ci guarda dall’alto dell’empireo godendosi la sua tranquillità, proiettando sulla scena del mondo un’attesa sterile perché foriera solo di fatica e di morte.

Il nostro Dio è il Misericordioso, il Dio che ha gli uteri e che genera. È il Dio che è vulnerabile al dolore e alla sofferenza delle sue creature e vuole prendervi parte: perché Dio stesso piange con noi quando ci contorciamo nella sofferenza.

Non siamo abbandonati, buttati nel tempo e nella storia, così come oggetti vaganti che possono essere colpiti in ogni momento da disavventure ed eventi implacabilmente negativi. Siamo persone generate alla vita che, passo passo, vicenda dopo vicenda, possono aprirsi alla conoscenza della partecipazione del Misericordioso che si duole con noi, patisce con noi, perché lascia che il Suo Amore creatore venga colpito proprio dalle nostre stesse sofferenze. Il Misericordioso che non ha esitato di donare se stesso nel Figlio crocifisso con le braccia aperte e distese su tutto l’universo.

Nessuno e nessuna viene escluso o esclusa. È in gioco il ritrovare il senso, probabilmente smarrito, della propria vita, del non perdersi totalmente. Rischio che lo smarrirsi comporta ma che non impone necessariamente.

Sui passi dolenti, intrisi dalle lacrime, il soccorso vicendevole, la certezza comunicata perché profondamente sperimentata, della Presenza dell’Altissimo, sono cibo che corrobora.

Allargare il proprio sguardo consente al proprio cuore di non rinchiudersi e di non inacidirsi. La terra di cui siamo plasmati può essere bagnata dalle nostre lacrime e diventare humus fecondo, disposto ad accogliere lo Spirito che scende come rugiada sanante.

Allora la sofferenza delle lacrime versate trasfigura la ferita che può donare Luce gioiosa a tutti.

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