È ciò a cui deve tendere il cammino dell’Iniziazione cristiana culminante nella Cresima, secondo don Matteo Dal Santo, responsabile del Servizio per la Catechesi, che ne illustra l’evoluzione degli ultimi anni e l’importanza anche sul piano relazionale
di Annamaria
Braccini
«Credo che, anzitutto, sia una sfida per le nostre comunità: il fatto che parecchi ragazzi non proseguano il loro cammino di fede ci interroga su cosa c’è stato “prima”, quindi, su come hanno vissuto nell’Iniziazione cristiana, e su che cosa si può proporre “dopo”»: questa la convinzione di don Matteo Dal Santo, responsabile del Servizio per la Catechesi.
L’Iniziazione cristiana era uno dei “cantieri aperti” fin dai tempi del cardinale Tettamanzi e se ne è molto discusso anche successivamente, fino a oggi. Esistono progettualità magari diverse dalle proposte esistenti?
Adesso abbiamo l’itinerario diocesano «Con Te!» (leggi qui), riconosciuto dall’Arcivescovo come cammino ufficiale della nostra Chiesa. Questo ci permette già di avere degli strumenti a disposizione. I cambiamenti, d’altra parte, sono in atto: la catechesi, sempre di più, non si limita a trasmettere dei contenuti, ma si basa su un cammino e un’esperienza di fede. Certo, dobbiamo dare tempo ai catechisti, formarli e accompagnarli proprio perché questo mutamento possa avvenire. Credo che un altro aspetto fondamentale, nella formazione dei ragazzi in particolare in quelli della Cresima, sia aiutarli a sentirsi parte di una comunità: non a caso, nel nostro itinerario per il IV anno – in cui è predisposta la celebrazione della Cresima – vi è un’intensificazione delle esperienze di comunità e di Chiesa, sia attraverso incontri e testimonianze, sia attraverso servizi di carità, attività di gruppo, ambiti di impegno per propria parrocchia o con altre realtà.
Queste iniziative hanno già dato dei frutti positivi?
Sì, anche perché, molte volte, separare in maniera troppo netta i cammini dell’Iniziazione cristiana non aiuta. Nel progetto che proponiamo, infatti, si invita a fare in modo che ci siano, ogni tanto, incontri tra i ragazzi preadolescenti e quelli della Cresima, per sapere gli uni gli altri cosa stiano vivendo e per fare qualcosa insieme, per incontrarsi e per pregare. È prevista anche una sorta di “festa di accoglienza” di solito preparata dai preadolescenti, come per dire a chi sta terminando l’itinerario dell’Iniziazione: «Ora fate parte del nostro gruppo». Sono accorgimenti semplici, ma fanno la differenza.
I catechisti e le catechiste riescono a intercettare le inquietudini nascoste nel profondo di questi ragazzi e che faticano a emergere, come dicono le statistiche, specie dopo la pandemia?
Non tutti, dipende da come viene impostata la catechesi: se quest’ultima dà spazio al racconto di sé, entra nel vissuto – non per forza o in modo invasivo, evidentemente, ma attraverso una narrazione, magari anche la drammatizzazione delle attività che permettono ai ragazzi di raccontarsi -, allora il giovane si sente accompagnato e ascoltato. Questo è un passaggio importante e da tenere presente in modo costante: i catechisti devono essere preoccupati non solo del contenuto da trasmettere, ma dell’attenzione al vissuto della persona, essendo consapevoli sia dei disagi evidenti oggi, sia dei cambiamenti inevitabili che avvengono a quell’età.
Anche coltivare questo aspetto relazionale si può considerare una vera catechesi?
Essere presi sul serio ed essere ascoltati ritengo che sia catechesi, perché la catechesi è Parola di Dio che risuona nella vita delle donne e degli uomini, dei ragazzi come degli adulti: se non diamo spazio alle persone perché si raccontino e raccontino, perché prendano coscienza di ciò che vivono, rischiamo di annunciare un Vangelo che non risuona più.