Il rapporto tra democrazia e comunicazione al centro dell'affollata serata dei Dialoghi di vita buona allo Studio Melato, dedicata al dibattito sui social media: «Non solo fake news, c’è qualcosa di più grave e profondo»
di Annamaria
Braccini
«Un lavoro continuo di chi ha a cuore il bene comune». Con questa logica, il primo appuntamento della nuova serie dei Dialoghi di Vita Buona prende il via al Piccolo Teatro Studio Melato, con tanta gente – ci sono anche l’Arcivescovo e il prefetto di Milano, Luciana Lamorgese, rappresentanti del mondo politico, imprenditoriale e culturale – che arriva per ascoltare un parterre di relatori di eccezione.
Con il titolo della serata, «Politica, popolo, post. Rappresentanza e democrazia alla prova dei new media», si mette a tema il rapporto complesso tra democrazia e comunicazione, come spiega in apertura monsignor Davide Milani, responsabile dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Diocesi. L’orizzonte di riferimento (secondo una collaudata e apprezzata formula) lo offre il video della canzone – ormai ventennale, ma attualissima – Il Conformista di Giorgio Gaber. «Uno smascheratore», dice il cantante Giulio Casale, che subito dopo esegue La destra e la sinistra, sempre di Gaber.
Martinelli e Mentana
Si inizia il giro delle riflessioni con il politologo dell’Università degli Studi di Milano Alberto Martinelli. «A partire dalla Rivoluzione Francese e nel secolo successivo, la lotta politica continua a essere una battaglia di idee, a livello però ristretto. Con l’avvento del cinema e della radio si rende più ampio il pubblico; poi, la televisione diventa il mezzo più importante per organizzare il consenso. Infine, l’ulteriore salto di qualità con la tv commerciale che usa la politica e non il contrario. Questo tipo di informazione contribuisce alla crisi dei partiti tradizionali e favorisce la personalizzazione della politica e la disintermediazione», sottolinea Martinelli, che scandisce: «Si giunge così ai social media, mezzi non più unidirezionali, perché permettono interazioni, ma che hanno implicazioni più negative che positive, in quanto si prestano a manipolazioni e alla ricerca di capri espiatori con la demonizzazione dell’avversario. L’uso che se ne fa oggi non contribuisce, certo, a un miglioramento della democrazia».
Il discorso inaugurale del mandato presidenziale di John Fitzgerald Kennedy – pronunciato davanti a una folla sconfinata il 20 gennaio 1961, con il famoso appello «Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» – fa da magnifico intermezzo.
La distanza tra ieri e oggi, a livello di leadership, sembra siderale ed Enrico Mentana, direttore del Tg de La7, proprio da qui riparte. «Il fervore che ha contraddistinto il periodo successivo alla seconda guerra mondiale si è estinto. Le nuove generazioni credono nella libertà e nella democrazia come se fossero uno stato di natura, dato per sempre, ma non è così. Questa è la questione di fondo. Il venire meno di una democrazia, per cui si credeva in un “altrove” e nelle ideologie all’interno di quei motori della lotta politica che erano i partiti, ha lasciato posto a qualcosa d’altro. Chi vive di una democrazia stagnante, saltando nella globalizzazione e nell’era del web che tante cose ha piallato, non ragiona più in termini di destra e di sinistra. Improvvisamente, la logica del discredito – che ha nell’establishment un obiettivo facile – trova una ribalta perfetta sui social dove la virtualità, la “non-fattualità” si fa realtà, perché ogni cosa può diventare vera se ottiene 1000 like. I social media sono, da ogni punto di vista, asimmetrici rispetto alla comunità, perché non sono regolamentati e perché sfuggono all’identificazione. Bisogna reintrodurre la capacità di stare dentro tutto questo, perché non esiste “un’agorà dei buoni”. La battaglia sarà lunga, ma se non cominciamo abbiamo già perso. Facebook e Twitter sono la nuova agorà e lì bisogna stare per dire la verità, perché non passino assurdità come quella per cui il volontario di una Ong diventa un delinquente».
Bichi e Cacciari
Rita Bichi, docente di Sociologia generale all’Università Cattolica e tra i curatori del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, parla di comunicazione e giovani. «I Millenials hanno visto sparire le loro certezze e sono diventati la prima generazione tornata a emigrare dall’Italia, ma già si presentano i loro fratelli minori, la generazione “Z”, ossia i veri nativi digitali, i ragazzi del touch che credono che non essere connessi sia un discrimine nella condizione sociale». Un dato, questo, apparentemente incredibile, ma ovvio, se si pensa che si incontrano sulle piattaforme e che vivono, per la maggior parte del tempo, all’interno sulla Rete. «Il 40% dei giovani, di cui la metà non sa cosa pensare, è disaffezionato alla politica, non avendo riferimenti di nessun tipo. Se pure vanno a votare, le convinzioni sono costruite in maniera mobile e basate su rapporti personali. Alla politica, che non ha più credibilità ai loro occhi, chiedono unicamente di rendere meno precaria la loro esistenza, non solo lavorativa, e di non adeguarsi al contesto, ma di gestirlo».
Massimo Cacciari, filosofo e politico – che con il cardinale Scola ideò i Dialoghi -, mette in guardia: «Se un tale modo di comunicare è irresistibile, occorre concludere che non è più possibile una politica democratica. La democrazia è sempre su una soglia, ma vi è una condizione che non può venire meno anche nella lotta più dura: la responsabilità per cui rispondere allo stato delle cose e alle domande che vengono dalla società. Se manca la responsabilità e rimangono solo le convinzioni, si annulla la prassi democratica». Come a dire, «una politica che segue solo le passioni è la morte della democrazia». Ma dove può maturare l’elemento di razionalità e responsabilità? Chiara e appassionata la risposta: «Torniamo ad alcuni principi elementari, realizzando nella società forze che abbiano una loro struttura e consistenza, altrimenti quello che ognuno può fare, nel grande fiume del web, non conta assolutamente nulla. È gravissimo che si siano delegittimati gli enti intermedi. Non a caso, i leaders irresponsabili e populisti dicono “il popolo”, ma la società non è una massa omogenea, è un tessuto di mille colori. A queste condizioni la democrazia non può sopravvivere».
Il dibattito
Insomma, non è questione solo di fake news, ma di qualcosa di più grave e profondo.
La lettura di stralci del Discorso del Papa rivolto nel 2017 ai capi di Stato europei, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, introduce la tavola rotonda moderata da Tiziana Ferrario, giornalista Rai e inviata del Tg1.
Qual è il ruolo dei giornalisti? Sono anch’essi corpi intermedi? Informatori o formatori? Queste le domande. Se per Cacciari i giornalisti devono formare, «mentre sono stati i peggiori semplificatori», Mentana (che non è d’accordo) rivendica l’importanza di stare sui social «per prendermi il privilegio di dire la mia opinione». Martinelli non usa mezzi termini: «A me interessa che ci sia una pluralità, un controllo sui fatti e le fonti, mentre in giro vedo solo intervistatori che non incalzano e stanno in silenzio». «Oggi nessuno propone un futuro, in una società che non ha trovato un posto per i giovani, non possiamo lamentarci che non leggano i giornali. Il fatto è che non c’è stato ricambio generazionale, i giovani sono pochi non interessano per il voto. È il risultato di una cattiva politica che li ha messi ai margini». E, ancora, «Ai ragazzi non bastano slogan o demagogia, chiedono che si dica come stanno le cose, vogliono numeri, ma la politica non risponde».
Si torna alla questione della leadership e il pensiero va a Trump, «che dice una falsità sostenendo che il potere è tornato agli elettori». Siamo di fronte a una commistione pericolosa di nazionalismo e populismo, per questo occorre una democrazia a livello sovranazionale ed europeo», conclude Martinelli. «Poi, ma solo dopo, arriva il problema dei circuiti e dell’informazione, prima c’è il nodo della democrazia che diventa la “democratura”». Il neologismo usato da Mentana, in chiaro riferimento alla politica di casa nostra e di oltre oceano, strappa l’applauso convinto, come quello con cui termina la serata dopo due belle interpretazioni, ancora di Casale, di altrettanti brani di Gaber.




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