Nell’ambito della Settimana dei Centri culturali cattolici il dialogo tra l'Arcivescovo e il ministro dell'Interno Lamorgese, moderato dal direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio
di Annamaria
Braccini
La realtà che ci impone una dolorosa presa di coscienza. Gli eventi che costringono a pensare, anche nella solitudine vissuta nelle nostre case, a cosa sia la vita. La solidarietà, la famiglia – come base per guarire una società malata -, l’alleanza educativa, la speranza e l’umiltà necessarie per affrontare le difficoltà di oggi e il domani. Tanti, profondi e diversi modi per dire che è possibile, «insieme, risvegliare l’umano». Così come si intitola la prima Settimana proposta dai Centri culturali cattolici della Diocesi, nel cui contesto si svolge, in diretta on line, il dialogo tra il ministro degli Interni Luciana Lamorgese e l’Arcivescovo.
Moderato dal direttore di Avvenire Marco Tarquinio, l’incontro tocca alcuni punti cruciali (e problematici) del nostro vivere quotidiano e della costruzione di una società migliore e più equa, secondo quella logica del “buon vicinato”, a cui l’Arcivescovo ha dedicato nel 2017 il suo primo Discorso alla Città, che viene evocata da Tarquinio in apertura, nella più ampia prospettiva dell’enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti:
Persone, comunità e famiglia
«Per risvegliare l’umano occorre guardare le persone, alcune che creano solidarietà e altre che si rinchiudono nella solitudine. Conta di più la persona che la categoria in cui la collochiamo. La parola del Vescovo è invitare alla solidarietà perché la situazione non si aggiusta da sola, ma con l’aiuto di tutti, con mani tese che stringono altre mani», chiarisce subito l’Arcivescovo.
Una visione condivisa dal Ministro che sottolinea: «L’agire insieme, il senso di appartenenza a una comunità sono fondamentali. Ciò che serve è solidarietà per raggiungere risultati positivi». Anche perché non vi è «nulla di peggio che far finta di essere sani in un mondo malato», osserva il direttore di Avvenire, richiamando le immagini e le parole indimenticabili del Papa il 27 marzo scorso.
Chiarissima la risposta dell’Arcivescovo: «Alle istituzioni tocca pensare ad attenzioni, iniziative, provvedimenti di sistema, e in questi mesi tribolati mi pare ci sia grande attenzione e sensibilità. Dal mio punto di vista, però, per curare la società malata è necessario curare la cellula originaria, la famiglia. La famiglia, che pure ha molto sofferto per la pandemia, si è rivelata il contesto che ha permesso di superare la crisi, è stato elemento fondamentale per sostenere la scuola, la salute, la povertà, la solitudine. Bisogna investire per organizzare la sanità, ma la guarigione di una società malata è creare un contesto di comunità, in cui la famiglia deve esercitare le sue responsabilità».
«Occorre utilizzare la famiglia per fare coscienza. Quando c’è di mezzo di un Paese, sono le forze politiche, al di là delle differenze, che devono lavorare insieme per il bene comune», aggiunge Lamorgese. Compito arduo, con «il virus dell’odio» che si insinua tra solitudini, diseguaglianze sempre più gravi, parole urlate.
La cultura dell’accoglienza
«Ma è possibile mettere una dose di gentilezza, come auspica il Papa, nel rapporti personali e sul territorio, costruendo una modalità diversa nel gestire le cose?», chiede Tarquinio a cui risponde la titolare del Viminale: «Tutte le cose possono essere dette con gentilezza e anche fermezza, ma sempre nel rispetto dell’altro. Lo dico da donna delle Istituzioni perché la violenza nell’esprimere le proprie idee incide molto su chi ascolta. Ci vuole cultura dell’accoglienza: le idee urlate non portano da nessuna parte».
«Recuperare la gentilezza è una pista promettente. Quel disagio che si respira in tanti ambienti deve essere abitato – fa eco l’Arcivescovo -. La rabbia che spacca e sporca deve esse interpretata. Non bastano provvedimenti di ordine pubblico, abbiamo bisogno di imparare un linguaggio, di tessere rapporti, di essere alleati per vedere se siamo capaci di seminare rispetto e gentilezza, per costruire un mondo in cui sia desiderabile vivere senza avere paura gli uni degli altri e abbiamo il dovere di entrare là dove abita il disagio».
Il dramma sociale e la responsabilità comune
Un dramma nel dramma, oggi, la povertà con dati statistici impressionanti, che parlano di 5 milioni di poveri assoluti, con le Caritas che registrano un 40/60% in più di richieste di aiuto, senza dimenticare – sottolinea il moderatore – la povertà di chi è malato, straniero, un paria della società. «Come si fa a dire nessuno rimarrà indietro? La Chiesa ce la fa?».
«Non ho una ricetta – riflette l’Arcivescovo -, ma immagino che la ripartenza non può essere un proclama, ma è tessere rapporti a livello locale, di fronte a una tendenza che sembra inarrestabile, con il divaricarsi delle condizioni con i benestanti che diventano più ricchi e le classi medie o modeste che diventano più povere. Non è la poesia velleitaria del “vogliamoci bene che ce la facciamo”, ma un invito alla responsabilità che trasfigura il territorio che si abita. Significa trasformare una discarica in giardino, un luogo degradato, di depressione culturale e sociale, in un luogo di confronto, bellezza e condivisione. Significa fare quel che è a portata di ognuno di noi: non voglio pulire il mondo, ma il metro quadro che abito, e lo voglio tenere pulito, perché è un aiuto per tutti».
Preoccupata la risposta del Ministro. «Purtroppo vedo la deriva dell’odio. La crisi che viviamo può generare rabbia sociale: lo dico da aprile. Con la seconda ondata della pandemia la preoccupazione per il futuro, per il posto di lavoro, ha determinato rabbia sociale. Dal 24 ottobre al 10 novembre abbiamo avuto circa 700 manifestazioni pubbliche, con grande dispendio di forze di polizia che hanno dovuto cercare di mantenere la piazza con senso di equilibrio e umanità. Anche i poliziotti sono esseri umani e in questo momento comprendono coloro che manifestano. Le manifestazioni sono assolutamente legittime, noi le contrastiamo quando ci sono infiltrazioni».
Poi, la riflessione sulle generazioni, «che qualcuno ha voluto raccontare in contrapposizione l’una all’altra. Chi ci insegna a essere umani?».
Lamorgese: «I principi che sono alla base di una duratura e forte convivenza civile sono la famiglia e la scuola che fortifica, creando rapporti. La vita oggi è complicata, ma che è anche un’opportunità per insegnare ai nostri figli i principi e i valori del camminare insieme per costruire una società dove tutti abbiano pari dignità. La società funziona se c’è una regola di vita uguale per tutti, una custodia gli uni degli altri». Come il miracolo – così lo definisce – «dell’intesa fra maggioranza e opposizione che ha portato ad approvare, all’unanimità del Senato, lo scostamento di bilancio».
Infine, la conclusione dell’Arcivescovo: «Abbiamo la possibilità di dire quale sia un principio sapiente dell’umano, essendo più consapevoli del limite e persino più umili. L’umiltà che tutti oggi comprendiamo, – un’acquisizione pagata a caro prezzo – ci obbliga alla responsabilità. Le parole, forse anacronistiche, sono umiltà e speranza per sognare insieme il futuro (che oggi pare più una minaccia), guardando avanti. E, poi, alleanza, condividendo pensieri, risorse e tempo di fronte all’attuale emergenza spirituale. Tre parole che sono una buona proposta per un umanesimo che sopravviva al disastro. Abbiamo una speranza e sappiamo che insieme possiamo raggiungere quella coraggiosa intraprendenza che non è poesia astratta, ma che guarda e affronta i problemi con sapienza lieta, come hanno fatto le generazioni che hanno dovuto ricostruire l’Italia dopo la guerra».