Mettersi in gioco passando dall’«io» al «noi»: secondo il decano don Gabriele Spinelli è questa la sfida da affrontare nel territorio in cui si sta svolgendo la Visita pastorale dell'Arcivescovo
di Cristina
Conti
Nello scorso fine settimana l’Arcivescovo ha avviato la Visita pastorale nel Decanato di Turro (leggi qui). «Siamo 12 parrocchie, con 8 parroci e 5 preti incaricati della pastorale giovanile – spiega il decano don Gabriele Spinelli, parroco di San Giuseppe dei Morenti -. Le Comunità pastorali già esistenti sono due, una si sta allargando a comprendere quattro parrocchie».
Come vi siete preparati alla Visita dell’Arcivescovo?
Abbiamo riflettuto sul valore e sul significato della Visita pastorale. Da parte dell’Arcivescovo c’è il desiderio di incontrare i ragazzi della catechesi, di vivere momenti spirituali in ogni parrocchia. Ma c’è anche il desiderio di incontrarlo da parte delle persone che vivono qui. Per questo motivo abbiamo organizzato anche la possibilità di passare qualche momento insieme dopo la Messa. Ci sono inoltre opportunità di incontro con i giovani, le scuole, i consacrati (come le Clarisse e le Preziosine) e con il Gruppo Barnaba. Sono momenti belli, che sottolineano la territorialità delle parrocchie.
Quali sono i principali problemi del vostro territorio?
Non conosco tantissimo il Decanato. Qui vivono oltre 100 mila persone e le situazioni sono molto diverse. Se alcuni possono avere una vita piuttosto agiata, senza particolari problemi, ci sono sicuramente sacche di povertà, di miseria e di degrado umano e sociale. Solo nella mia parrocchia, per esempio, lo scorso anno abbiamo distribuito 1.300 pacchi per i poveri…
L’immigrazione è molto presente?
È un fenomeno reale. Ormai un terzo delle persone che vengono in chiesa per partecipare alla Messa sono di lingua o di etnia diversa da quella italiana. Nella mia parrocchia si organizza anche un doposcuola a cui partecipano ragazzi musulmani, così come durante l’oratorio estivo c’è una buona presenza di stranieri. Abbiamo anche uno spazio bimbi, in cui molte donne con il velo portano a giocare i loro figli e possiamo scambiare con loro qualche parola: si tratta di persone ben inserite nel contesto sociale. È rilevante notare che, oltre ai battesimi spesso richiesti dagli stranieri per i figli piccoli – mentre gli italiani lasciano in molti casi libertà di scelta fino all’età adulta -, oggi ci troviamo a celebrare anche diversi funerali di immigrati e matrimoni tra persone straniere o tra stranieri e italiani.
E il disagio giovanile?
La pastorale giovanile è sempre un po’ in difficoltà. I giovani sono spesso disorientati, faticano ad affrontare le difficoltà che si frappongono sul loro cammino. Ma c’è anche chi è capace di vivere una fede impegnata, fare volontariato, darsi da fare nello studio, mettersi al servizio degli altri. Gli oratori sono luoghi importanti di incontro nel Decanato. E mi sembra che in questo momento non ci siano tensioni tra bande o altre forme di forte disagio giovanile.
Come è andata con la pandemia?
Qualcuno è scomparso, qualcun altro invece è tornato. Le parrocchie sono comunque vive e ben radicate nel territorio.
Quali sfide vi attendono in futuro?
La sfida più importante penso sia quella di passare dall’«io» al «noi». Ormai, a livello sia di attività pastorale, sia di vita civile non si può pensare solo a noi stessi. Siamo cittadini del mondo e su molte cose ci troviamo impreparati. Stiamo affrontando eventi storici inediti: possiamo e dobbiamo fare qualcosa. L’assemblea sinodale che sta nascendo potrebbe essere l’occasione per riflettere su questo. Lo scorso anno abbiamo proposto un ritiro spirituale per tutto il Decanato, quest’anno proporremo qualcosa (un pellegrinaggio, una fiaccolata, una veglia di preghiera…): l’importante è che laici, preti e suore siano disposti a mettersi in gioco. Essere missionari pensando al “noi” della Chiesa e dell’umanità. Questo deve essere l’obiettivo. E in questo senso anche le attività come l’oratorio o la Caritas devono essere pensate al plurale.