Lo sviluppo online contribuisce all'aumento del traffico di esseri umani e rende le vittime più vulnerabili: queste le risultanze dell'appuntamento promosso da Pime, Caritas Ambrosiana, Mani Tese e Ucsi nella Giornata mondiale per la lotta al fenomeno

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di Annamaria Braccini

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I presenti al convegno presso il Centro Pime

«Il traffico di esseri umani in tempo di pandemia è un dramma nel dramma». È questa la definizione più chiara e immediata delle tante questioni – ma meglio sarebbe parlare di ferite aperte – affrontate nel convegno promosso dal Centro Pime, Caritas Ambrosiana e Mani Tese, in collaborazione con Ucsi, nella Giornata mondiale della lotta contro la tratta, voluta fortemente da papa Francesco che al tema ha dedicato anche un videomessaggio. Titolo dell’incontro 2022, moderato dalla giornalista Anna Pozzi e inserito nel percorso di avvicinamento al Festival della Missione (Milano, 29 settembre – 2 ottobre), «Traffico di esseri umani e nuove schiavitù. L’impatto devastante del Covid sulle vittime in Italia e nel mondo». Molti i partecipanti, presenti al Pime – tra cui monsignor Giuseppe Vegezzi, vescovo ausiliare e membro della Commissione episcopale per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra Chiese – e collegati in streaming.

Con gli intermezzi musicali proposti da Raymond Bahati del Coro interculturale Elikya, si sono alternati interventi che hanno analizzato, nel panorama internazionale e a livello italiano, le proporzioni di un fenomeno sempre in crescita, dolorosamente testimoniato anche dall’esperienza vissuta in prima persona da Joy Ezekiel, autrice del libro Io sono Joy (scritto con Mariapia Bonanate, ed. San Paolo, prefazione di papa Francesco).

Uscire dall’inferno

Joy, una giovane nigeriana, è arrivata in Italia a soli 23 anni nel 2016, «finendo in un inferno» fatto di sesso, violenza, prostituzione, vessazioni di ogni tipo. È lei stessa che, con coraggio, ricorda questi anni, richiamando spesso il sostegno venutole dalla fede e facendo memoria di santa Giuseppina Bakhita, «anche lei venduta tante volte e che per me è un’amica, perché vedo me stessa in lei».

«Ho attraversato la Libia, il deserto e il mare per giungere in Italia – racconta -, lasciando la Nigeria per una falsa proposta di lavoro venuta addirittura da una pastora amica di famiglia». Penultima di cinque figli, orfana di padre, Joy è stata spinta a emigrare «perché le donne non contano nulla in Nigeria» e perché voleva aiutare la famiglia: «In Libia sono stata quattro mesi, in un lager ho subìto violenza e accanto a me è morta una ragazza di 13 anni. Ma sono andata avanti per la mia fede. Ero una merce sessuale per gli uomini e una macchina da soldi per la madame». Poi la traversata nel Mediterraneo, il naufragio – «sono morte 45 persone, tra noi c’era anche un bambino di 3 giorni» – e lo sbarco a Bari in un centro di accoglienza, dove gli stessi profughi “amici” l’hanno messa in contatto con la madame, e l’arrivo a Castel Volturno. E lì la prostituzione, le botte, dopo un primo tentativo di fuga, il dramma quotidiano di una vita disumana.

«Non basta solo ascoltare, dobbiamo fare anche piccoli gesti rivolti a coloro che non hanno niente: quelli che io ho ricevuto rimangono per sempre nel mio cuore. Credevo di arrivare nella terra promessa, invece, ho trovato un inferno molto – Joy lo ripete tre volte – peggiore della Libia. Dovevo pagare un debito di 35 mila euro e mi hanno tolto tutto, la dignità, ma anche il nome e l’identità».

Infine, il riscatto: «Sempre sorretta dalla fede, dalla forza di andare avanti, sono scappata ancora e sono andata dalla polizia che mi ha portato dalle suore Orsoline e così è iniziata la mia ripresa», sorride Joy, che oggi studia da mediatore culturale (ma vorrebbe diventare psicologa), è impegnata in parrocchia a Roma e nell’Associazione Talitha Kum, la rete internazionale di vita consacrata contro la tratta voluta nel 2001 dall’Unione internazionale Superiore Generali.

La situazione internazionale

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«La pandemia ha impattato moltissimo, creando maggiore vulnerabilità nei più poveri come le vittime di tratta, che sono diventate tali anche nel loro Paese di origine, con uno spostamento della schiavitù nel mondo virtuale», spiega Fabio Agostoni, della Comunità Papa Giovanni XXIII, associazione fondata da don Oreste Benzi, molto impegnata su questo fronte, e già membro del Consiglio Onu per i Diritti umani di Ginevra. «Vulnerabilità e invisibilità sono i due pilastri di ciò che sta accadendo», scandisce, partendo da fonti internazionali estremamente qualificate quali l’Interpol europea – mobilitata contro il traffico con il gruppo Gr.E.Ta -, il Dipartimento di Stato americano e la Nunziatura apostolica di Ginevra.

«Le vittime di tratta nel mondo sono circa 40-45 milioni, il 72% delle quali giovani donne e il 23% minori. La maggior parte delle donne sono costrette alla prostituzione (quasi 60%) e il resto al lavoro forzato (34%), ma aumentano i bambini – prosegue Agostoni -. Infatti, il reclutamento e l’adescamento si realizzano sempre più online, con false proposte di lavoro o altro che guadagnano facilmente la fiducia delle vittime. Non a caso, l’Interpol ha monitorato un aumento della pedopornografia sul web. Inoltre, molte ragazze, già in difficoltà per il lockdown, sono state definitivamente estromesse dal mondo scolastico. Questo è il tempo della invisibilità delle vittime e del fenomeno, perché le persone che subiscono la tratta non hanno più modo di essere identificate, conosciute e, quindi, protette. La stessa Interpol ammette che, se era già complicato scoprire in tempi normali i meccanismi dello human traffic, ora è sempre più difficile, per lo spostarsi delle bande criminali sulle nuove tecnologie e anche perché spesso chi le combatte non è preparato. Il passaggio all’indoor e al virtuale è strutturale e non si tornerà più indietro: mentre, apparentemente, per i clienti l’abuso consumato in rete può sembrare meno violento, per le vittime è ancora più drammatico, perché rischiano di essere schiave e schiavi per sempre. Basti pensare ai 400 lavoratori vietnamiti ritrovati a lavorare in condizioni terribili in Serbia».

I video dalla Cambogia e dal Benin

Si prosegue con le videotestimonianze introdotte da Barbara Cerizza, direttrice di Mani Tese, con i contributi di Damnok Toek, associazione cambogiana impegnata nell’accoglienza dei bambini di strada e sui ricongiungimenti familiari, e di Achille Tepa, rappresentante per Mani Tese in Benin. «Operiamo in una zona poverissima al confine con Togo e Burkina Faso, dove i bambini sono ricercati come manodopera a basso prezzo, sensibilizzando le comunità e lavorando per la sanzione concreta dei trafficanti. Fondamentale è l’istruzione, perché il fenomeno dell’abbandono scolastico è strettamente collegato alla crescita della povertà da Covid e alla tratta», dice Tepa.

Cambiare il modello di sostegno

Vito Mariella, vice-direttore della Caritas di Bari-Bitonto ed educatore dell’Associazione Micaela Onlus, illustra la situazione in Italia, con un’amara riflessione iniziale. «Quali sono oggi gli anticorpi da mettere in campo? Se persino gli investigatori fanno fatica a dare risposte, noi dobbiamo interrogarci ancora di più. Negli ultimi 10-15 anni la questione della prostituzione per le strade si legava al decoro urbano, ma occorre ribaltare questa prospettiva con un cambio di paradigma, per cui si deve parlare di decoro umano. Se la politica su questo è sorda e la pandemia ha reso ancora più invisibili le vittime, bisogna recuperare l’impegno dal basso avendo una visione: sognando con i piedi nel fango. Come Chiesa e organizzazioni abbiamo la necessità e la responsabilità di fare questo sforzo».

Infine, un ulteriore affondo: «Si deve capire cosa sta accadendo nelle case private e negli appartamenti. L’unità mobile di strada, in questi due anni, ha visto l’emergere di nuove urgenze di intervento direttamente a domicilio: non basta più presidiare le strade. Si deve cambiare mentalità: aumentano, per esempio, le persone transessuali provenienti per lo più dal Sudamerica e sfido chiunque a trovare donne romene nelle comunità di accoglienza. Ci vuole certamente un piano nazionale antitratta, ma occorre ripensare il modello di sostegno e, noi per primi, dobbiamo metterci in gioco in modo diverso, interrogandoci su come declinare differentemente la parola cura, con un agire educativo che non sia solo un automatismo assistenziale incapace di tenere conto di ciò che sta accadendo. Ovviamente questo è anche un lavoro culturale».  

 

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