Redazione

Il 27 novembre 1991 Martini ha ricevuto in Arcivescovado i vertici della Democrazia cristiana con Forlani in testa. Avevano infatti chiesto di incontrarlo in vista del convegno sulla riforma del partito, ma in quell’occasione il Cardinale, usando un’immagine evangelica, parlò di «fico sterile».
Ho un ricordo preciso. Era una conferenza organizzativa che aveva quasi il rilievo di un congresso mirato al rilancio della Dc. Affioravano ormai tutti i sintomi del declino e i leader del partito chiesero udienza a Martini, che eccezionalmente la concesse. Non lo faceva abitualmente per i rappresentanti di partito, ma quella volta aveva in animo l’idea di indirizzare loro un monito. Ricordo – perché così mi riferirono alcuni testimoni diretti – il “gelo” e lo sgomento che produsse l’intervento del Cardinale. C’erano tutti i leader dell’epoca (anche Fanfani). Essi si attendevano una parola di sostegno e di incoraggiamento da un’autorità religiosa e morale, per rimarcare anche l’ispirazione cristiana del partito. Martini invece indirizzò loro un monito molto severo, che tuttavia troverà eco più volte poi nei suoi discorsi ai politici, per i quali, non a torto, qualcuno evocava l’immagine dello staffile di sant’Ambrogio. E se da una parte l’Arcivescovo risultava severo nei confronti dei limiti e delle insufficienze nell’esercizio del potere, dall’altra era comprensivo e amabile. Non giudicava infatti le persone, semmai la qualità etica dell’azione politica collettiva e, in questo caso, dei partiti. A posteriori si dimostra che aveva ragione lui nell’ammonire, scuotere, richiamare, considerato il fatto che di lì a poco si sarebbero prodotti il collasso del sistema dei partiti e la stessa Tangentopoli, segno comunque di un processo degenerativo molto avanzato e largamente diffuso.

In diverse occasioni gli interventi di Martini, compresi i discorsi di Sant’Ambrogio alla città, sono stati strumentalizzati: uomini politici, di destra e di sinistra, hanno tentato di interpretare le parole dell’Arcivescovo “tirandolo” dalla loro parte. Nonostante il Cardinale abbia sempre cercato di mantenere le distanze non sono mancate le polemiche…
Forse nel caso di Martini le strumentalizzazioni di destra e di sinistra sono state meno che per altri, perché lui ha sempre avuto lo scrupolo di marcare la sua alterità dalle parti politiche. Non però neutralità o equidistanza rispetto ai valori e soprattutto alle istanze evangeliche, perché la Chiesa non può essere neutrale. L’Arcivescovo aveva piuttosto l’ambizione di esprimere nel dibattito pubblico una parola che stesse non fuori dalle parti, ma al di sopra, e che allo stesso tempo le interpellasse tutte. L’operazione di strumentalizzare politicamente la sua parola e il suo messaggio era quindi condannata alla sconfitta, perché in lui c’era sempre questa cura scrupolosa. Tale strumentalizzazione è un po’ congenita alla politica, ma nel suo caso aveva palesemente un sapore forzato, perché in lui è difficile riscontrare elementi di subalternità o di compiacenza verso le parti politiche. Per Martini l’importante era pronunciare la parola giusta – e questo glielo si deve riconoscere -, più conforme al Vangelo, piaccia o non piaccia, a questo o a quello, aderente alla situazione, ma anche inesorabilmente affidata alle libere interpretazioni, comprese quelle strumentali.

«La prima caratteristica dell’uomo che ha responsabilità sociale e politica non è saper fare, non è la capacità di ottenere il consenso o la capacità di aggregazione», ha dichiarato l’Arcivescovo nel febbraio 1986 intervenendo ai “sabati di aggiornamento” per i cristiani impegnati in ambito sociale e politico, «è anzitutto l’intelligenza, la volontà di pensare e di riflettere sulle situazioni continuamente mutevoli». Cosa intendeva dire?
Qui è chiaro che Martini indirizzava alla politica un messaggio, teso – per dirla con una celebre formula lazzatiana – a “pensare politicamente”, a richiamare l’esigenza di una visione larga e comprensiva, dentro la quale si deve sempre iscrivere l’azione politica, contrastando un certo attivismo affannoso, un po’ volontaristico e di corto respiro. Questo, in verità, è uno dei meriti largamente riconosciuti al Cardinale, non solo per quanto riguarda la politica, ma anche la vita della Chiesa. C’è in lui – e questo grazie al carisma spiccatamente religioso e alla sua indole di studioso – una tensione alla ricerca in profondità, mai doma, inesausta, vorrei dire la programmatica refrattarietà ai luoghi comuni e alla banalizzazione dei problemi. Non si contentava mai e questo è lo stile che ha trasmesso alla comunità cristiana e civile. Sotto questo profilo, c’è una pagina in cui egli, in forma molto discreta, riscontra elementi di affinità tra sé e Montini, anche se i due appartengono a stagioni differenti e sono uomini soggettivamente molto diversi. Entrambi però hanno il gusto dell’approfondimento, il ripudio dei luoghi comuni e della banalizzazione dei problemi, il richiamo alla complessità. Insomma, quella che possiamo definire la dimensione della profondità spirituale, culturale e altro ancora.

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