Redazione
MILANO NON HA FATTO BENE I CONTI CON LA PRESENZA DEL CARDINALE MARTINI, S’È DIFESA, NON S’È LASCIATA CONTAGIARE
Allo scampato pericolo, alla democrazia formalmente rinsaldata, la città ha reagito con gli anni della «Milano da bere». Mentre la Pirelli andava in crisi, l’Alfa Romeo iniziava il declino sino allo scandalo del mancato recupero di Arese, macchia indelebile sulla politica milanese, la Falck scongiurava il disastro per l’intelligenza di Alberto Falck, mentre si annunciavano le delocalizzazioni esplose con la caduta del muro di Berlino, Milano o si perdeva nell’ottimismo della moda e del design «che salveranno l’immagine della città», o si atteggiava a bella addormentata nel bosco in attesa del principe azzurro che la risvegliasse con un tenero bacio e, magari, qualche lusinga.
Una miopia collettiva ha offuscato i contorni e alterato la percezione delle distanze rispetto a realtà simili e pure esse in profonda trasformazione : Torino, Roma, Genova se la caveranno molto meglio, pur essendo passate attraverso crisi e trasformazioni non meno pesanti. Come chiunque può constatare.
E un pregiudizio radicato, di natura illuministica, ha agito nell’inconscio ambrosiano. Milano non ha fatto bene i conti con la presenza del cardinale Martini, s’è difesa, non s’è lasciata contagiare nel profondo dalla radicalità evangelica di cui il presule s’era fatto portatore. Dal giorno dell’ingresso in diocesi, febbraio 1980, l’arcivescovo aveva riconosciuto in pieno le «eccellenze» della città, il suo fare e il suo carattere, la sua generosità, ma chiedeva un salto di qualità, un supplemento d’anima, raccomandava il cambiamento attraverso la conversione del cuore, la trasformazione interiore. Milano s’è fregiata del suo «cardinalone», lo ha ammirato quasi ad ogni passo, ha affollato il Duomo e la «Cattedra dei non credenti».
E quando taluni esponenti dell’establishment economico lo hanno contestato per le riserve da lui espresse sul profitto nel momento in cui questo non fosse indirizzato all’uomo secondo giustizia, la «vox populi» lo ha immaginato a grandi destini per la Chiesa e per il mondo, con tipico sciovinismo meneghino ne ha rimarcato le differenze rispetto al pontefice allora sul trono di Pietro, Karol Wojtyla. Ma il laicismo del vecchio motto milanese «frà minga, prett puchitt, dumà in gesa» ha finito per avere il sopravvento.
Il pregiudizio della separatezza tra privato e pubblico, tra morale individuale e visione etico politica, la gelosa custodia dell’individualità e il vissuto che ciò che è comune possa essere di minaccia alle conquiste personali sono connotati di molta milanesità. Occorre averne coscienza e tenerne sempre conto. La lunga presenza di Martini ha fatto esplodere la contraddizione.
E la reazione affettuosa all’approccio pastorale del suo successore, il cardinale Tettamanzi, vissuto come un benefico, forte richiamo, che però non necessariamente deve andare a incidere sulle scelte e sui comportamenti collettivi, sembra una conferma.
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