Nel pronunciamento dell’Arcivescovo tre inviti che motivano l’elogio della politica: la gratitudine per chi svolge questo servizio, il recupero di ciò che unisce e non disgrega, la valorizzazione della democrazia rappresentativa
di Chiara
Tintori
Politologa e saggista
È bello che l’elogio della politica nel Discorso alla Città 2022 si apra esprimendo «la gratitudine per il servizio reso alla città e a tutti i Comuni della Diocesi dai sindaci e da tutti coloro che collaborano per l’Amministrazione comunale, dagli operatori della sanità e dell’educazione, dalle Forze dell’ordine, dai magistrati, dalle autorità provinciali e regionali». Sì, perché troppo spesso, quando guardiamo alla politica, prevalgono la lamentazione e il disappunto, piuttosto che la riconoscenza. È lo scetticismo con cui è «più facile e consueto deprecare i comportamenti dei politici, irridere all’impotenza dei politici e all’inefficacia delle leggi, denunciare fallimenti, errori». Ecco il primo invito che ci viene dall’Arcivescovo: una sorta di confessio laudis. Sforziamoci di rinvenire motivi concreti per cui ringraziare i cittadini dediti a responsabilità pubbliche, che svolgono «un impegno quotidiano spesso logorante e poco confortato dai risultati». Se trovassimo ulteriori occasioni per esprimere questa gratitudine, l’aria delle nostre città sarebbe molto più respirabile.
«E», non «o»
Il secondo invito ci viene dalla congiunzione «e» del titolo «E gli altri?». Succede che oggi la politica preferisca spesso l’uso della congiunzione «o», tra una serie di due alternative: i giovani o gli anziani, gli italiani o gli stranieri, i lavoratori dipendenti o gli autonomi, i meritevoli o i meno degni. Così facendo, in una realtà sociale sempre più complessa e interconnessa, la politica rischia di separare e disgregare. Se la politica valorizzasse la congiunzione «e» assumerebbe lineamenti più inclusivi, perché mentre io «o» tu ci escludiamo a vicenda, tu «e» io insieme formiamo un «noi».
Il valore dei corpi intermedi
Il terzo e ultimo invito che colgo dall’elogio della politica riguarda la democrazia rappresentativa, «che convoca tutte le componenti della società a costituire un “noi” radunato da un senso di appartenenza e di legittima pluralità per praticare il realismo della speranza, per costruire la giustizia e la pace». La democrazia rappresentativa trascende il voto, si nutre di partecipazione, confronto e dialogo oltre le campagne elettorali. Grazie al pensiero incompleto di menti e cuori aperti, di chi sa che non può padroneggiare l’interezza della realtà, ma solo aprirsi a essa, fiorirà la cultura dell’incontro, che è incompatibile con qualunque visione chiusa, individualistica e autoreferenziale. In un tempo in cui il rapporto tra il potere politico – incarnato dal leader – e il popolo è sempre più diretto e teso a fare a meno di qualunque mediazione, è bene ribadire che la spina dorsale della democrazia rappresentativa restano i corpi intermedi. Ma come «contestare e correggere la sfiducia che è presente in chi non vuole essere coinvolto, si chiude nel proprio punto di vista e non si interessa degli altri»? Ciascun cittadino, in qualunque situazione si trovi, può fare la differenza se intercetta relazioni di cura. Pratiche quotidiane e dettagli concreti, metodo e creatività già offrono e promettono ancora più linfa alla partecipazione nelle nostre citta. A una condizione: non lasciarsi spaventare dalle differenze; solo le divisioni fanno paura.
Il realismo della speranza invita noi cittadini a un salto di qualità. Per la cura del bene comune, non sempre basta considerare gli altri come fratelli, cioè pari a noi in umanità. È il tempo dell’amicizia sociale, in cui guardare agli altri non solo come fratelli, ma come degni della nostra amicizia.