A cinque anni dalla morte (5 agosto 2017) il ricordo del Cardinale nelle parole del professor Alfredo Anzani, medico che gli fu amico e allievo in campo bioetico: «Non giudicava, ascoltava e comprendeva»
di Annamaria
Braccini
«Il mio è un ricordo pieno di affetto, di riconoscenza, di amicizia vera. Mi torna alla mente quando pubblicò il libro Custodi e servitori della vita, dedicato alla bioetica, e sulla prima pagina scrisse “al mio amico medico”. Mi ha insegnato cose profonde, a dire sempre di sì, rifacendosi al detto che, a sua volta, gli ripeteva la mamma Giuditta: “Un fiat è sempre fiat”». Alfredo Anzani, già presidente della Sezione di Milano dei Medici Cattolici Italiani dal 1995 al 2004 e poi, dal 2012, vicepresidente della Federazione Medici Cattolici, ha un’emozione particolare nella voce ricordando il cardinale Dionigi Tettamanzi, che dei Medici Cattolici fu assistente ecclesiastico nazionale dal 1998 al 2012, a cinque anni dalla sua scomparsa (5 agosto 2017).
C’è qualche altro insegnamento che il Cardinale le ha lasciato?
Sì: quello di usare sempre le particelle “e… e”, non “o… o”, perché con queste ultime si perde l’altro, mentre con le prime si mettono insieme le parti, in una visione conciliante di amore e di rispetto della verità.
Quando ha conosciuto Tettamanzi?
A Seveso, presso il Santuario di San Pietro, dove celebrava le prime Messe. Eravamo nel 1957, lui aveva 23 anni e io 13 e gli facevo da chierichetto. Da quel momento è sempre rimasto il mio sacerdote di riferimento. Poi per me c’è stato il maestro, perché aveva particolare attenzione a tutte le tematiche di carattere etico, soprattutto in campo antropologico: non dimentichiamo che è stato uno dei collaboratori di Giovanni Paolo II per la formulazione della Familiaris Consortio. A questo proposito, mi permetto di ricordare un episodio significativo. Eravamo andati a pregare con il Pontefice nella sua cappella privata. Al termine il Papa gli mise le mani sulle spalle e disse con la sua voce possente, «Dionigi Tettamanzi, colonna della Chiesa!».
In campo bioetico, quale era la sua prospettiva interpretativa?
Direi che la caratteristica principale è che desiderava comprendere le novità in campo biologico e scientifico non con un atteggiamento di presunzione giudicante, ma attraverso l’ascolto e la comprensione. Una visione antropologica fondamentale, perché alla base del suo giudizio non c’era mai la condanna, ma il rispetto della verità dell’uomo. La sintesi di questa visione sta in una frase che non ho più dimenticato: «Ci sono principi che non sono modificabili, poi ci sono le persone, le une diverse dalle altre, che vanno capite, ma prima ancora amate».
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