L’Arcivescovo ha presieduto, in Duomo, il Pontificale per la Solennità dell’Ascensione. Durante la Celebrazione, si è ripetuto il rito tradizionale della elevazione del Cero pasquale, fino alla sommità del tiburio
di Annamaria
Braccini
«Lo Spirito che, come vento amico, spinge al largo, eppure le barche non aprono le vele, non sciolgono gli ormeggi, perché i discepoli si ammalano di malumore e di esitazioni, di paure e di pigrizie, intimoriti dagli orizzonti della missione, chiusi nell’angustia delle consuetudini, logorati dal convivere forzato, specialmente in questi tempi di pandemi».
L’impietoso paragone tra la comunità lieta dei primi discepoli – narrata dalla pagina di Vangelo di Luca, appena proclamata -, e quella del Terzo millennio, nel giorno in cui si celebra la solennità dell’Ascensione, trova nelle parole dell’Arcivescovo un’immagine bella, forte, evocativa. Soprattutto pensando che, comunque, come aggiunge subito il vescovo Mario, quello stesso «Spirito può irrompere anche nella Chiesa di oggi, anche nelle nostre comunità che paiono ingrigite e stanche». Stanche di quella diffusissima stanchezza che fa apparire «il dono un fardello, la grazia un problema, la festa un dovere, la vocazione un disagio, la missione un’impresa frustrante».
Forse anche perché la missione appare oggi sproporzionata: «La missione non è rivolta a tanti, ma a tutti. Come faremo noi che siamo così pochi è incompiuti?», continua l’Arcivescovo che presiede il Pontificale, concelebrato da alcuni Canonici del Capitolo metropolitano, tra cui il vescovo, monsignor Angelo Mascheroni.
Tra i fedeli presenti nelle prime file, siedono i rappresentanti del Sovrano Ordine di Malta e della Confraternita del SS. Sacramento.
Il riferimento è ad alcune immagini suggerite dalla Liturgia della Parola, specie il Vangelo, durante la cui lettura – secondo un’antica consuetudine della Chiesa cattedrale -, il grande cero pasquale, simbolo di Cristo risorto viene elevato verso l’alto tiburio sino a scomparire, rappresentando il mistero dell’Ascensione del Signore.
«I doni dello Spirito si compiono nel servizio all’edificazione della Chiesa. La Chiesa è il corpo di Cristo che, nella vicenda storica, diventa il segno visibile a tutti, perché tutti possano riconoscere il popolo in cammino verso il Regno promesso e sentire l’attrattiva della promessa. Il corpo che è la Chiesa è segno, e perciò è anche organizzazione, ma la sua natura di organizzazione è a servizio della missione; è segno permanente, perciò è istituzione, ma la sua natura di istituzione è a servizio della missione, accessibile a tutti, anzi invito rivolto a tutti. Il corpo di Cristo che è la Chiesa invita tutti, non per orientare a sé, ma per indicare la via della salvezza che è Gesù, non per trattenere, non perché preoccupata della sua sopravvivenza, ma perché preoccupata che l’umanità non viva senza speranza. Perciò la Chiesa è invito a sperare».
Poi, il tempo e lo spazio vinti, nella loro divisione, dalla pienezza di Cristo.
«Il tempo e lo spazio – scandisce, infatti, l’Arcivescovo -, non sono più principio di separazione, per cui quello che è qui non può essere là, quello che è in terra non può essere in cielo e neppure quello che era in passato non può essere presente e neppure futuro. L’Ascensione non decreta un’assenza, ma il modo glorioso di essere presente, la promessa del ritorno non decreta un tempo senza Gesù, ma il modo glorioso di vivere il presente come occasione di grazia, grazia di comunione.
L’incompiuto è vocazione al compimento».
Da qui, anche il nostro compimento come donne e uomini che «soffrono l’incompiuto come il limite umiliante: “vorrei essere felice, ma è già tanto se posso vivere qualche momento di allegria; vorrei amare ed essere amato, ma è già tanto se riesco a vivere qualche affetto precario e imperfetto; vorrei sapere chi sono e quale è il mio destino, ma è già tanto se riesco ad avere qualche sicurezza per il giorno di domani”».
Al contrario, «l’incontro con Gesù risorto, l’uomo perfetto, promette il compimento dei desideri più profondi ed enigmatici. La gloria di Gesù risorto che riempie il cielo e la terra, il tempo e lo spazio, avvolge ogni persona e insegna la via che conduce alla gioia, alla verità, all’amore».
E, allora, vice la speranza «Forse anche noi, discepoli di oggi, possiamo tornare a casa con una grande gioia perché l’Ascensione ci rende possibile riconoscere il segno della gloria di Dio, nella presenza della Chiesa; perché luogo e tempo non sono più fattori di separazione, ma possibilità di comunione, perché tutto è abitato dalla gloria del Signore, perché il nostro limite non l’invalicabile abisso che ci rinchiude, ma il luogo dove irrompe il compimento».
Quella gioia che, infine, al termine della Celebrazione, torna come una consegna di cammino. «Abbiamo celebrato una solennità, la gloria del Signore, ma la città non lo sa. Come farlo sapere ai nostri concittadini, a quelli che ci incrociano? Io credo che segno della nostra fede, della comunione che viviamo con il Signore e tra noi sia la gioia. Dunque, questo è il messaggio: tornate a casa con grande gioia».