Redazione
Vivono al di là di una grata, che qualcuno chiama, senza tante distinzioni, “stare dietro le sbarre”, quasi fosse una prigione, come tutte le reclusioni, fonte di un’esistenza senza sorriso. E, invece, la prima sensazione, che rimane stampata nella memoria di chiunque varchi le soglie della clausura, è quella della gioia, di una serenità misteriosa che riesce a conoscere i tanti dolori del mondo, ma non ne rimane sommerso.
di Annamaria Braccini
Non ha dubbi suor Maria Teresa dell’Eucaristia, carmelitana scalza, claustrale nel Convento milanese di via Marcantonio Colonna. «Molti credono che la vita in clausura sia limitata e, per così dire, distante dalle persone, ma non è vero: anzi – aggiunge -, perché ci teniamo informate con la stampa cattolica e mediante la radio e la televisione. Così, ogni giorno, sperimentiamo la nostra vocazione, l’essere vicini al Signore e ai molti che, quotidianamente, ci chiedono un aiuto. La nostra, certo, è una vocazione radicale, di donazione totale che apparta dal mondo, ma, proprio per questo, ci rende possibile portare nel cuore gli affanni e i drammi dell’umanità. Credo che il Signore ci chiami a questa vocazione anzitutto per rendergli lode, per testimoniare il Cristo risorto».
Ma come si fa a “portare” agli altri l’annuncio della salvezza, quando non si esce mai dal proprio convento? La risposta di suor Maria Teresa è insieme semplice e difficile come scalare una montagna: «Il grande silenzio che ci circonda aiuta ad “allargare” gli orizzonti del cuore, a rendere più disponibili; il distacco ci fa attente alle necessità di tutti coloro che, senza esclusioni, bussano o telefonano – ormai, rispetto al passato, è molto semplificata anche questo tipo di comunicazione, spiega – per una preghiera, una parola di conforto e di sostegno. Penso di poter dire che le tragedie delle donne e degli uomini hanno in noi una risonanza più profonda che, forse, altrove».
È con questo sguardo dell’animo “ampio”, con una vita che non si confronta con la fretta ossessiva che leva significato all’ascolto dell’altro, ma che anzi diviene “vero farsi prossimo”, che suor Maria Teresa come le sue consorelle, nel convento al centro di una Milano rumorosa e disordinata, continua nella propria vocazione. E il pensiero non può che andare «a quando, prima di entrare in clausura – racconta ancora la carmelitana – facevo volontariato, ero impegnata nel lavoro, ma ora so che la mia conoscenza del mondo era molto più superficiale di quella che ho ritrovo ogni mattina con la mia scelta religiosa».