Con la Celebrazione vigiliare in onore di san Carlo Borromeo, si sono conclusi i Lavori del Sinodo minore “Chiesa dalle Genti”
di Annamaria
BRACCINI
Un inno a essere una cosa sola, alla condivisione della vocazione alla speranza, alla convocazione da cui nasce la vera comunione, quella «al futuro», come la definisce l’Arcivescovo che presiede il Pontificale in onore di san Carlo Borromeo. Celebrazione solenne, vigiliare della domenica, in cui si somma, al ricordo del copatrono della Diocesi, la conclusione dei Lavori del Sinodo minore “Chiesa dalle Genti”. Genti che sono fisicamente presenti in Cattedrale, dove arrivano insieme, in una suggestiva processione formata da oltre 400 persone tra cui i 150 i Delegati del Sinodo che, per tutta la giornata, hanno votato, approvandolo, il Documento finale. Testo consegnato, in conclusione del Pontificale, all’Arcivescovo stesso, il quale, entrando in Cattedrale, porta tra le mani la croce simbolo del Sinodo.
Per prepararsi al meglio alla Celebrazione, alcuni cori etnici eseguono canti nelle varie lingue di origine. Un arcobaleno di suoni, colori, ritmi che in, modo emblematico, si compone idealmente con i Dodici Kyrie peculiari della Liturgia ambrosiana all’’inizio della Messa, concelebrata dai Vescovi ausiliari, dai Vicari episcopali di Zona e di Settore, dai più stretti collaboratori di monsignor Delpini, ma anche da tanti sacerdoti, 150 tra diocesani e ministri delle Cappellanie dei migranti. Tutto parla di armonia: le vesti dei piccoli chierichetti, tipiche delle nazioni di provenienza e quelle delle Confraternite, i canti della liturgia, le intercessioni, la preghiera dei fedeli proposte ancora in tanti diversi idiomi del mondo.
Insomma, una Chiesa intera che si mostra con i laici, i preti, i Diaconi, i seminaristi, i Catecumeni, tutti invitati in modo specifico a partecipare all’Eucaristia nel nome di san Carlo di cui monsignor Delpini – che si raccoglie anche in preghiera presso lo Scurolo – indossa, per l’occasione, l’Anello, il Pallio e il Pastorale, utilizzandone anche il Calice.
«Ma da dove viene ciò che ci unisce?», si chiede, certamente riferendosi anche al Sinodo, il vescovo Mario. « È possibile che ci siano popoli che vivono insieme? Che cosa tiene uniti i molti?».
Se alcuni pensano che il popolo si mantenga unito per via dell’uniformità – «parlano la stessa lingua, condividono la stessa storia, si è nati nello stesso paese, si è cresciuti sotto lo stesso campanile»,«altri ritengono che il popolo lo sia «per via della buona volontà come se si obbedisse a un precetto». Eppure, nel primo caso, «il legame rende più facile uno stare insieme spontaneo che non è garantito e, forse, troverà nella storia molte smentite, perché talvolta le guerre più aspre sono quelle tra gente dello stesso paese e le lotte più insanabili sono nella stessa famiglia».
Nel secondo, poi, «il tempo consuma e logora, le buone intenzioni e i buoni propositi presto sfumano, la fatica esaspera e stanca, le frustrazioni dei risultati deludenti insidiano tutte le migliori intenzioni».
Ancora, «altri pensano che il popolo si mantenga unito per via di un esercizio rigoroso dell’autorità che propone una buona normativa e impone una rigorosa attuazione. Il Ministero e il Magistero di san Carlo inducono a non sottovalutare l’importanza della attività legislativa del Vescovo e l’esercizio della sua autorità», nota l’attuale successore del Borromeo.
Ma, a questo livello, «le insidie del formalismo, della cura per la facciata ineccepibile che lascia crescere la distanza e il dissenso – dell’agire perché spinti -, rendono improbabile quella comunione che è impossibile se non è sostenuta da un’intima persuasione e animata da un’ardente passione».
Insomma, ci vuole di più, come suggerisce Paolo nella Lettera agli Efesini. «Siamo chiamati alla medesima speranza, per questo diventiamo un solo cuore solo e un’anima sola: siamo un popolo che si mette in cammino perché fa credito alla promessa. Condividiamo lo slancio e l’ardore, la pazienza e la tenacia perché la promessa di Dio ci ha fatto ardere il cuore, ci ha convinti ad alzare lo sguardo, ci ha reso consapevoli che è possibile uscire dalla ripetizione stanca, dalla rinuncia preventiva a mettere mano all’impresa per una paralisi geriatrica. Dio ci ha chiamati alla speranza e noi sulla speranza costruiamo la nostra comunione al futuro».
E, qui, nasce ancora una domanda: «Come sarà la “comunione al futuro” che fa emergere la Chiesa dalle genti, quella che diventa una speranza di pace per tutti gli uomini della terra?».
«La comunione al futuro prende vita dalla convocazione, dalla commozione per ciò che il buon pastore ha fatto per noi. Ecco la vocazione alla speranza: non la proclamazione di un sogno, di una retorica del progresso. È la vita donata di Gesù, è lo Spirito infuso dalla sua Pasqua e che spinge come un vento amico, che rende ardenti come un fuoco, che offre sollievo come l’acqua viva che ristora nell’aridità del deserto. Noi speriamo al futuro perché siamo stati amati così. La comunione al futuro si racconta come un cammino. Non si tratta in primo luogo di attuare una normativa, né di dare vita a nuove strutture e istituzioni, si tratta piuttosto di alzare lo sguardo sulla Sposa dell’Agnello per appassionarci all’audacia di un cammino che tenta le strade, che non chiede ricette, ma intelligenza, creatività, desiderio; l’audacia di un cammino che non è intralciata dalla paura del nuovo, dell’altro, di ciò che mette in discussione le abitudini consolidate e anacronistiche. L’audacia del cammino non è l’azzardo dell’arbitrario, non è l’esibizionismo della stranezza o del folkloristico, non è il protagonismo del singolo che pretende di essere profetico solo perché squalifica il lavoro degli altri. Il cammino è un cammino di popolo e conferma, nella procedura sinodale, il metodo per un discernimento che definisca i passi da compiere». Metodo che, come aveva detto lo stesso Delpini all’Assemblea finale del Sinodo, poco prima nel pomeriggio, è stato proficuo, buono nei risultati e nei tempi, tanto che lo si potrà, applicare anche a future ed eventuali revisioni di altre Costituzioni del Sinodo 47esimo, ormai superate dai tempi.
Sull’esempio di san Carlo che (con i tanti Sinodi anche Provinciali da lui convocati) individuò una procedura necessaria per la riforma della Chiesa, così oggi, «cerchiamo di ispirarci a lui come modello».
La conclusione vale per il Sinodo e per la memoria condivisa dei Pastori e Padri della nostra Chiesa: «Cercare la comunione più dell’efficienza, irradiare la gioia per la speranza piuttosto che il malumore per il disagio del cambiamento, guardare ai popoli portatori di futuro con stima e incoraggiamento invece che consentire il diffondersi della paura e lasciarsi tentare dalla meschinità dell’arroccamento».
«L’aggregazione di un popolo se è motivata dalla nostalgia è sterile, l’aggregazione consolidata dalla paura è conflittuale, l’aggregazione forzata dalla normativa è artificiosa. Noi siamo il popolo radunato dalla speranza, convinto dalla fede nelle promesse di Dio, animato dal dono dello Spirito Santo. Noi siamo il popolo della speranza e della comunione al futuro».
Infine, dopo la consegna durante i Riti di conclusione della Celebrazione, del Documento approvato poche ore prima e che verrà, poi, con eventuali correzioni e osservazioni, promulgato prossimamente dall’Arcivescovo, è lui che benedice la Pala dell’Assunta di Lucio Fontana l’immagine bronzea dell’Annunciazione di Lucio Fontana. Opera mai vista prima e magnifica, se pur non realizzata in marmo come erau previsto, e posta, per tutto il periodo della mostra “L’arte novissima. Lucio Fontana per il Duomo di Milano 1936-1956”, presso l’altare di Sant’Agata.