Una lunga e fraterna amicizia, cementata attraverso ministeri condivisi e incarichi comuni a entrambi: «Una presenza discreta, ma sempre attenta e incoraggiante. Per me è stato un esempio»
di Annamaria
Braccini
«Ricordo, condensando tanti anni di conoscenza e di incontro, una figura che sintetizzerei così, con le parole che mi sono uscite dal cuore appena ho saputo della sua scomparsa. “È morto un grande: grande nell’umiltà; convinto e fermo nella sapienza di Dio; attento alle persone con discrezione e fiducia; ricco di umanità per tutti”». È una memoria commossa quella che monsignor Luigi Stucchi, amico da decenni del confratello vescovo Marco Ferrari, esprime con espressioni che, da sole, dicono tutto, senza bisogno di troppe spiegazioni, ma semplicemente richiamando tanti momenti e situazioni di condivisione sacerdotale e fraternità umana.
Quando è iniziata la vostra conoscenza?
Sapevo chi fosse, naturalmente, già dal periodo del Seminario, ma alla fine degli anni Settanta è cominciata una vera e propria frequentazione. Io risiedevo a Lecco, dove dirigevo il settimanale Il Resegone e lui era parroco di Osnago, distante pochi chilometri. Poi sono seguiti i tempi che ci hanno visto, in modo diverso, dentro un ministero che diventava sempre più simile per entrambi, come vicari e come vescovi. Per me è stato sempre un esempio.
Infatti siete stati tutti e due vicari episcopali per la Zona pastorale di Varese…
Certo. Ricordo ancora che, quando il cardinale Dionigi Tettamanzi mi comunicò la volontà di nominarmi suo vicario, andai dall’allora Vicario generale, monsignor Giovanni Giudici. Ma rientrando verso casa mi fermai subito da monsignor Ferrari, mio vicario di Zona, a cui sono succeduto.
Coincidenze della vita?
Sì, ma anche qualcosa di più. Quando mi trovavo a Tradate come parroco e decano, ovviamente ero in stretto contatto con lui, che era vicario di Zona. Credo, tuttavia, che vi sia un filo conduttore che va oltre i ruoli e le reciproche responsabilità, un tratto umano che parlava non solo con le parole o gli appuntamenti, ma anche nel silenzio, perché da parte di monsignor Ferrari mi veniva offerta una presenza discreta, ma sempre attentissima e incoraggiante.
C’è un ricordo personale che le è particolarmente caro?
Ci sono tanti episodi, tante circostanze. Abbiamo, per esempio, viaggiato insieme molte volte, anche quando non era più vicario di Zona, recandoci quasi sempre insieme agli incontri della Cei. Al di là della molteplicità di queste occasioni di amicizia e di confidenza – anche di affronto di alcuni problemi -, in questi giorni ho pensato più volte a un momento particolarissimo nel tempo della sua malattia. Una prova, che anche negli anni in cui era vicario della Zona di Varese è stata molto forte, avendo dovuto subire dei ricoveri ospedalieri. Un domenica andai a trovare don Marco, prima di chiudere la giornata. Dormiva. Era una sera tranquilla e io sono rimasto accanto al suo letto, senza parlare, come facevo del resto con tutti gli ammalati, che cercavo di non disturbare se erano assopiti. A un certo punto si è leggermente mosso e ha iniziato a parlare, come pregando e riflettendo tra sé. Avevo posto la sua mano sul suo capo, ma non mi aveva ancora visto. Una sua frase mi si è fissata nella mente e nel cuore: «Chissà il Signore cosa farà di me, cosa mi aspetterà ancora…». Si stava interrogando dal profondo della sua malattia, delle sue condizioni fragili, in questa luce: la luce del Signore, della sua volontà, del suo disegno di vita. Una frase brevissima, ma indimenticabile, scolpita. Poi, un attimo dopo mi ha visto, ha cambiato tono, ma non ha nascosto quello che aveva detto prima: me l’ha come consegnato. E io l’ho conservato sempre come un grande dono. Chi si interroga così non si preoccupa delle cose di questo mondo, non si lascia sconfiggere dalle avversità della vita, perché parla davanti al Signore.