Redazione
Quando le vedi sulla strada, le donne nigeriene, raramente pensi che stiano pregando. Invece Kia esordisce proprio così, nel racconto della sua Odissea italiana, raccontando come, anche nei momenti più bui, sentiva che qualcuno la proteggeva.
di Paolo Aresi
Kia ha conosciuto il lato oscuro della vita. È vissuta da schiava, ha sofferto il ricatto di morte nei confronti dei suoi figli in Nigeria, ha raggiunto l’Italia nei bagagliai delle auto e nelle stive delle navi. Ed è stata buttata su una strada per mesi e mesi, in balia di tutti, seminuda, in pieno inverno. È sopravvissuta. Adesso è qui in questa cucina accogliente che mi sorride. «Non mi sono mai persa d’animo, anche nei momenti più disperati sentivo che c’era qualcuno che mi proteggeva. Io pregavo. Nessuno lo direbbe, no? Vedono una nigeriana sulla strada, e non immaginano certo che stia pregando. Pregavo per me e per i miei figli».
Kia è arrivata in Italia nel 1998, clandestina. Oggi abita in un paese della pianura bergamasca, lavora in una casa di riposo, ha ricevuto il battesimo e fa parte del Consiglio pastorale della sua parrocchia. La incontro nella casa della sua catechista: «Nel mio Paese facevo l’assistente in un asilo, facevo giocare i bambini. Ma i soldi non bastavano. Qualcuno mi disse che avrei guadagnato molto in Europa facendo la badante. Dissi che ero interessata. Mi organizzarono il viaggio. Affidai i miei figli a mia sorella e partii. Durò cinque mesi, quel viaggio, ma subito capii che ero stato imbrogliata, che ero entrata in un giro pericoloso. Dovevi far sempre quello che volevano loro. Se sgarravi, sparivi…».
Kia finisce il suo viaggio a Torino, dove viene alloggiata in un appartamento con altre donne: «C’era una nigeriana che dirigeva lo sfruttamento. Tutti i soldi dovevamo consegnarli a lei, che ci detraeva l’affitto e il mantenimento; il resto veniva portato in detrazione del nostro riscatto. Ho impiegato due anni e mezzo per riconquistare la libertà». Due anni e mezzo di vita sulla strada. Ogni pomeriggio in treno da Torino verso Bergamo. Discesa a Verdello, quindi sulla statale. All’alba il rientro a Torino. Dormire, mangiare, poi di nuovo in treno. Tutti i giorni. Tutte le notti, con il gelo e la pioggia.
Kia ha occhi grandi, pelle nera, capelli crespi. Sedute con lei ci sono le catechiste che l’hanno accompagnata nella rinascita, Miriam e Franca: «Qualcuno mi ha aiutato, mi è stato vicino sempre. Dopo due anni e mezzo di quella vita io non ho preso nessuna malattia, niente. Stavo bene di salute, nonostante il gelo di quelle notti terribili, vestita quasi di nulla. E io a pregare: “Gesù, tirami fuori di qui…”. Sa una cosa? Nessun cliente mi ha mai fatto del male. Tanti venivano con me soltanto perché volevano parlare con una donna. Davvero. Una volta i carabinieri mi hanno portato in caserma, c’erano altre donne come me, a molte hanno dato il foglio di via. A me no. Mi hanno offerto un panino col tonno e mi hanno lasciata andare. Ricordo un’amica che passeggiava vicino me: aveva la gonna e gli stivali bianchi. Arrivò una piccola auto e lei salì. Non la vidi più, non è stata mai ritrovata. Poteva toccare a me. Qualcuno lassù mi proteggeva. Io penso al Vangelo, quando Gesù incontra la Samaritana e parla con lei nonostante abbia avuto tanti “mariti”: Gesù non la scaccia per questo. Come non ha scacciato me. Una volta arrivò uno che sparava alle donne sulla strada: scappammo tutte, io venni colpita e portata in ospedale. Era una ferita superficiale e anche quella volta i carabinieri non mi diedero il foglio di via».
Libera dopo aver pagato il riscatto, Kia andò a Messa per la prima volta ad Albegno, dove abitava: «Avevo paura, non avevo documenti, cercavo lavoro, bussavo alle porte. Arrivai in chiesa e pensai che non mi avrebbero nemmeno fatto sedere… Arrivò un uomo a raccogliere l’elemosina, io non avevo niente: allora dissi alla signora accanto che mi sarebbe piaciuto dare qualcosa. Lei mi diede una moneta e io la misi nel cesto. La signora mi invitò a casa sua e mi aiutò a trovare un lavoro. Feci la domestica, poi la badante a Grassobbio. Finalmente potevo mandare soldi ai miei bambini in Nigeria.
Ero cristiana, ma non battezzata, perché al mio Paese il battesimo è una grande festa e le famiglie che non possono permettersela non battezzano i figli. Chiesi al parroco, che mi spiegò che non c’era niente da pagare. Due volte alla settimana andavo dalle mie catechiste per prepararmi al battesimo, che ho ricevuto il 26 marzo dell’anno scorso nella chiesa ipogea del Seminario di Bergamo. Mi sono sentita rinascere. È stato il giorno più bello della mia vita».
Sembra il finale di una favola che poteva trasformarsi in tragedia. Manca ancora un tassello: «Sogno di tornare in Nigeria, di prendere i miei figli e portarli in Italia – confessa Kia -. Non è facile, ma io penso che qualcuno mi aiuterà».