Al Famedio del Monumentale la tradizionale celebrazione commemorativa presieduta dall’Arcivescovo, che nel giorno dedicato ai defunti visiterà ogni cimitero della città «per dire che i morti di Milano sono tutti miei morti»
di Annamaria
Braccini
«Noi cristiani siamo chiamati a dare testimonianza della speranza e a dire che è solo la speranza che consente di affrontare l’insopportabile della morte e l’insopportabile della vita, non con la distrazione, non con l’indifferenza, ma con la responsabilità della prossimità, con la dedizione della misericordia, con la resistenza nell’operare per la pace, la giustizia, per un mondo abitabile e per una vita desiderabile. Noi conosciamo il segreto della speranza, la promessa di Gesù».
Dice così l’Arcivescovo nella tradizionale Eucaristia del 1 novembre che, da lui presieduta, si svolge all’interno dello storico Famedio del Cimitero Monumentale – il cosiddetto Pantheon di Milano -, con le sue tante lapidi marmoree in cui sono incisi i nomi dei milanesi illustri di ieri e di oggi e con l’altare allestito, per l’occasione, di fronte al monumento funebre di Alessandro Manzoni.
A tutti coloro che sono riuniti sotto le eleganti architetture neogotiche ottocentesche, ai fedeli e ai rappresentanti delle Istituzioni, tra cui la neoassessora ai Servizi Civici e Generali del Comune di Milano, Gaia Romani con la fascia del Primo cittadino, si rivolge il vescovo Mario nell’omelia della Messa concelebrata da alcuni sacerdoti Francescani minori del vicino convento di Sant’Antonio – il guardiano, padre Saverio Biasi, porge il saluto di benvenuto – affidatari del Cimitero.
L’omelia
«Come fate, amici miei, a sopportare le morti insopportabili?», si chiede e chiede il vescovo Mario, suggerendo che, laddove «la morte è sempre una ferita, un evento misterioso per una famiglia e una comunità, vi sono morti più insopportabili». Come quelle sul lavoro o quelle violente delle donne, «vittime delle passioni degli uomini, proprio là dove cercavano affetto e sicurezza».
E, ancora, «le morti sulle strade, frutto della stupidità per il comportamento irresponsabile di qualcuno, per l’azzardo e uno sconsiderato modo di muoversi; o le morti per la crudeltà di un’ideologia, per rubare quello che appartiene ad altri e ad altri popoli».
Allora, come sopportare? Magari, come si fa oggi e in ogni tempo, difendendosi «dal dramma con la distrazione, il non pensarci, con l’estraneità, con la banalità e la curiosità morbosa per cui basta avere qualcosa di cui parlare».
Ma, poi, ci sono «anche le vite insopportabili, tormentate dall’angoscia, dalla depressione; dalla solitudine spaventata e impenetrabile», ad esempio, degli adolescenti.
Torna la domanda: «Come fate a sopportare lo strazio dell’amore impotente che vorrebbe dare gioia e non trova la strada per raggiungere l’intimità desolata dei figli, dei fratelli, degli amici?».
La risposta, per chi crede, non può che essere una sola, come scandisce l’Arcivescovo: «Io conosco un principio di forza per sopportare l’insopportabile, per resistere sotto i colpi della vita; una buona ragione per sostenere le fatiche della condivisione con chi porta i pesi insopportabili: è il principio della speranza, annuncio della promessa di Gesù. Per questo celebriamo l’Eucaristia e proclamiamo il suo Vangelo. “Beati coloro che piangono; coloro che sono perseguitati, coloro che sacrificano se stessi per la giustizia, la pace, per consolare chi soffre», aggiunge in riferimento alla pagina del Vangelo di Matteo, appunto delle Beatitudini, appena letto.
«La promessa che tiene viva la speranza non è un lieto fine inventato per nascondere l’opera spietata e irrimediabile della morte e del male; la promessa che tiene vive la speranza è certa, tenace, ostinata, paziente nella prossimità di Dio Padre che non permette che nessuno vada perduto. La speranza cristiana è quella fiducia che tiene viva la passione per la giustizia, l’impegno per la pace, la difesa dei deboli, anche quando l’impegno non ottiene risultati: anche quando la storia sembra un enigma insolubile. Dio, infatti, non abbandona mai e il bene cresce come un seme, non si impone come un trionfo o una rivincita».
Una speranza – questa – che si fa missione e vocazione «a tenere vivo l’amore per la vita, la responsabilità di mettere a frutto i talenti ricevuti, anche quando la vita è aspra, solitaria, messa a dura prova dalla grande tribolazione, dall’insopportabile peso».
A conclusione della celebrazione, il pensiero va ai defunti per i quali, nella festa loro dedicata, l’Arcivescovo pregherà in ognuno dei cimiteri di Milano e presiederà la Messa nel camposanto di Baggio, «per dire che i morti di Milano sono tutti i miei morti», come spiega.
Un gesto delicato di affetto simboleggiato da una pianta di ciclamini, che donerà in ciascuna delle sue visite, accompagnandola con questo biglietto: «Depongo un fiore, fiore tenace d’inverno. Omaggio per i morti, messaggio per i vivi: è bella la vita, grazie, Signore. È vinta la morte, alleluia. Eterna è la gioia: gloria a te, Signore».
E prima di lasciare il Famedio c’è ancora tempo per una preghiera silenziosa – accanto al Vescovo, l’assessora Romani – davanti alla lapide che porta i nomi dei benemeriti milanesi, di nascita o di adozione, scomparsi in questi 12 ultimi mesi e che verrà scoperta, come sempre, il 2 novembre dal Sindaco.