Frutto dell'opera di Dio, «rinnova i rapporti tra le persone», «forma una comunità cristiana» e «si accompagna alla gioia e alla pace»: così l'Arcivescovo nella Messa in Duomo per la seconda domenica
di Annamaria
Braccini
Un inno alla speranza grande e affidabile che è dono di Dio ed è per tutti. È un cantico di affidamento e di lode quello con cui l’Arcivescovo, presiedendo il tradizionale rito vespertino nella II domenica dell’Avvento ambrosiano – dal titolo «I Figli del Regno» – offre ai molti fedeli riuniti in Duomo, per la Messa concelebrata dai Canonici del Capitolo metropolitano.
Lo stralcio del Libro di Baruch, San Paolo nella Lettera ai Romani al capitolo 15, il Vangelo di Luca con la figura del Battista, sono il filo rosso della Parola con cui l’Arcivescovo annoda la sua omelia, nella quale tante volte torna appunto la parola «speranza», dalla «piccola» e mancante del nostro tempo a quella eterna.
La speranza che manca e l’illusione
«La speranza troppo piccola è quella di coloro che si accontentano di ciò che riescono a prevedere, che sperano di arrivare a fine mese, che sperano di non ammalarsi per il covid o l’influenza, che sperano di poter andare a sciare o che la diagnosi della loro malattia non sia un “brutto male”. La speranza troppo piccola è quella che si pone una meta a portata di mano, che si fissa un traguardo vicino, forse non esaltante, ma, insomma, probabile».
Come rimprovera Giovanni Battista, ci sono poi i «malati di illusioni che si illudono di tenere in mano la propria vita, che abitano la storia come una strada che non porta da nessuna parte. Quelli che, nella strada senza uscita, si accampano e si divertono, si dedicano ai loro affari e cercano di godersi la vita», perché «tanto tutto finisce in nulla». E se la diagnosi è fin troppo adatta per il mondo di oggi, tuttavia, – richiama l’Arcivescovo – già il profeta d’Israele aveva esortato «la città desolata a guardare lontano, a credere alla promessa di Dio di ricondurre i deportati per ricostruire Gerusalemme».
Solo chi si affida al Signore, infatti, «sperimenta l’abbondare nella speranza», come si legge nella Lettera ai Romani.
La promessa affidabile
«La grande speranza è dono di Dio. Il popolo di Dio si raduna e si forma perché si affida alla promessa ed esulta perché riconosce affidabili le promesse di Dio. La tendenza individualistica induce a concentrarsi su di sé e a chiedere una consolazione “privata”, ma la speranza che confida nell’opera di Dio è l’orientamento di un popolo, è un camminare insieme verso la terra promessa».
Come a dire che è la speranza a formare la comunità cristiana: «Non una comunità perfetta, ma in cammino perché segue Gesù, viva per la grande speranza, unita nella carità umile, paziente, costruttiva: la grande speranza convince alla conversione, si accompagna alla gioia e alla pace. Chi si affida alla promessa di Dio non teme il giudizio finale, l’ira imminente. Riconosce, invece, la verità di Dio in Gesù Cristo e sa che Dio compie solo il bene».
È questo lo stile autenticamente cristiano con cui deve (o dovrebbe) vivere il «discepolo che si affida al Padre, con la semplicità dei bambini, con la saggezza frutto di tante esperienza, con l’esultanza festosa che rinnova la vita della vecchia Gerusalemme».
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