I 150 anni della rivista del Seminario celebrati in un convegno a cui sono intervenuti il cardinale Ravasi, monsignor Brambilla e monsignor Sequeri, concluso dall'Arcivescovo: «Coltiviamo la teologia con umiltà, disponibilità e responsabilità»
di Annamaria
Braccini
«La mia gratitudine è per tutti coloro che hanno tenuta viva una rivista impegnativa come la Scuola Cattolica. Questo significa che il Seminario, che ha come scopo di preparare al Ministero ordinato, ritiene che valga la pensa avere uno strumento per un percorso teologico. Vuole dire anche che c’è una teologia necessaria per diventare preti e che la Diocesi si impegna ad avere docenti adeguatamente formati con percorsi accademici rigorosi».
L’Arcivescovo, che conclude l’intenso convegno celebrativo per i 150 anni della Rivista teologica, che si svolge presso il Seminario di Venegono, usa parole di ringraziamento e grande apprezzamento per il lavoro svolto da chi si è impegnato negli anni scorsi e per chi continua oggi a farlo nell’ideazione, collaborazione e gestione della Scuola Cattolica, attualmente diretta da don Stefano Guarinelli.
«Siamo come nani sulle spalle di giganti, ma forse è meglio dire che siamo nani che portano sulle spalle dei giganti – osserva l’Arcivescovo -. I seminaristi di oggi possono avere, talvolta, la sindrome di sentirsi schiacciati da tali giganti con un’impressione di inadeguatezza. L’aspetto positivo che vorrei indicare è che, piuttosto che la disperazione, potremmo coltivare la semplicità di chi risponde a una chiamata; piuttosto che smarrirsi nella molteplicità delle voci, delle sollecitazioni, delle attese, siamo chiamati alla disponibilità. Non siamo i protagonisti di un’impresa gloriosa o eroica: la teologia che serve a fare il prete ha il tratto dell’umiltà e della disponibilità a una chiamata dal Signore. Questo tema basato su Gesù, in questo Seminario, con la sua scuola teologica e la Rivista, ci dice che fare il prete non è avere un potere, ma svolgere un servizio che ci è stato affidato».
Quasi una consegna ai tanti studenti e docenti presenti, quella dell’Arcivescovo, al termine dell’intensa mattinata di studi che, dopo l’introduzione del rettore don Enrico Castagna, vede la relazione del cardinale Gianfranco Ravasi. Un viaggio, il suo, tra ricordi personali, esperienze culturali, citazioni dotte.
Ravasi: la fecondità della Bibbia
«Io sono un eclettico dominato dalla curiosità – spiega infatti -. Il mio percorso non è omogeneo, è sempre stato fluido, ma al suo interno vi è stata come una sorta di costellazione che mi ha sempre guidato con tre parole: il logos, la Bibbia, considerata come elemento culturale che genera cultura. Bibbia e cultura sono intrecciate».
Da qui il secondo «quadro»: la cultura, richiamata dal porporato attraverso il ricordo dei suoi 18 anni come prefetto dell’Ambrosiana e dei 15 alla guida del Dicastero della Cultura, «privilegiando sempre il dialogo con iniziative come il “Cortile dei gentili”». «In una società complessa e fluida, dove alla bulimia dei mezzi corrisponde una anoressia dei fini, non vi è ora un concetto di natura umana condiviso. Le teorie del gender sono la rappresentazione di una natura umana percepita a ragnatela».
Due gli esempi concreti sui quali, allora, siamo tutti invitati a confrontarci, la scienza e l’infosfera. «Per quanto riguarda la scienza, un tema molto sentito dai giovani, dobbiamo avere un dialogo attorno ad alcuni capitoli come la genetica, le neuroscienze, con tutte le domande che ne conseguono e l’intelligenza artificiale, soprattutto quella della macchina che ha l’algoritmo aperto per cui può “scegliere” in proprio». Altra sfida la rete informatica – che non si deve né mitizzare, ma neppure demonizzare – «attraverso cui è cambiato l’ambiente che ci circonda, con la virtualità irreale che diventa reale», conclude Ravasi, citando Romano Guardini e Steve Jobs che, al pubblico degli studenti di Harvard, disse: «La tecnologia da sola non basta, ma è il connubio tra questa e le arti liberali, tra la scienza e l’umanesimo, a farci sorgere un canto del cuore».
Brambilla: la teologia “felice” che si coniuga con la vita
Da parte sua monsignor Franco Giulio Barmbilla, vescovo di Novara e per più di 15 anni impegnato nella Scuola Cattolica prima come vicedirettore e poi come direttore della Sezione di Venegono, articola la sua riflessione in quelli che definisce tre dittici, a partire dal primo: il credente-prete.
«Essere e fare il prete è possibile solo se è attraversato da molti volti, solo se è pensato in forma corale e sinfonica, solo se non si è in marcia da soli», scandisce, richiamando anche la sua esperienza «fondamentale» con tante famiglie di bimbi portatori di handicap e parlando, poi, del «teologo-docente». «Nel tempo mi è diventata insopportabile ogni ricerca che si arrampica sugli specchi di una teologia autoreferenziale, lambiccata, inutilmente complicata, che ascolta se stessa, più che parlare di Dio agli altri. La teologia può essere fatta solo per passione. Lo confesso: sono (stato) teologo per passione.
Il terzo è «il dittico vescovo-pastore»: «Essere e fare il vescovo significa essere e diventare pastore a tempo pieno, forse come e più del parroco. Cerco di essere vescovo facendo la spola tra il sorriso di Tettamanzi, che mi ha ordinato nel 2007, e la passione di Martini, che mi ha illuminato. Conservo nella vetrina della mia libreria, il volume-intervista all’autore su cui ho fatto il mio lavoro di tesi, Edward Schillebeeckx. È intitolato Sono un teologo felice. Preferisco dire più semplicemente: sono un uomo felice, d’una felicità qualche volta raggiunta a caro prezzo fra tristezze interiori e pigrizie, tra sogni forse troppo grandi e realizzazioni inefficaci».
Sequeri: un compito di cui essere orgogliosi
È la volta, infine, di monsignor Pierangelo Sequeri, che ripercorre le sue esperienze di seminarista, giovane studioso, insegnante in Seminario con un primo, inedito, corso sul marxismo, docente di Teologia fondamentale. E, ancora, la passione per la musica, l’aiuto in parrocchia, l’impegno con i ragazzi disabili: «Il terreno della vita, della storia, della fede, appartengono tutti a un unico cammino, quello di Dio. Per anni mi sono chiesto cosa significhi fare teologia e come sia possibile fare sintesi tra questa e la pastorale e sono arrivato all’idea che lo è perché vi è un kairòs». Ossia, un tempo opportuno, favorevole, propizio.
«Dio ci ha affidato un compito che non ha mai affidato a nessuna generazione in 2000 anni di Cristianesimo e nemmeno alle generazioni bibliche. Annunciare la salvezza come segreto della riuscita della vita del mondo, in un mondo in cui le istituzioni dell’umano – il linguaggio, il lavoro, la generazione, la politica, la scuola – si congedano dalla regia ultima della religione nel modo di pensare e di fare. Dovremmo esserne orgogliosi e, invece, vedo ancora una teologia, anche quella molto progressista, che lavora per occultare la perdita di supremazia e la depressione diffusa anche tra i preti».
Che fare, dunque? Chiara e senza mezzi termini la risposta di Sequeri: «Occorre recuperare la Bibbia come lingua materna – che è molto di più di un semplice linguaggio – al posto del catechismo che è lingua delle scuole. Il secondo punto di scavo è il tema della generazione». La terza parola è l’auspicio «che il teologo tragga il giovamento di imparare da Gesù un registro profondamente affettivo e anche pieno di ironia. Noi interpretiamo questo tempo come un tempo dove compensare le perdite, invece che mettere a frutto i talenti».
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