Nell’anniversario di ordinazione il Cardinale parla delle sue esperienze («prove da cui ho imparato e personalità a cui sono grato»), della Chiesa in Italia («c’è una dialettica che rischia di riportarla indietro»), della Diocesi («presente e viva») e degli attacchi al Papa («da estirpare il prima possibile, lui è garante dell’unità della Chiesa»)
di Annamaria
BRACCINI
Il passato, il presente e il futuro, tante figure ed eventi. E poi la situazione della Chiesa, i dolorosi attacchi al Papa, i giorni del lockdown. È una conversazione a 360 gradi, quella con il cardinale Angelo Scola, Arcivescovo emerito di Milano, che abbiamo raggiunto a Imberido di Oggiono, nel Lecchese, nella canonica della chiesetta di San Giorgio dove si è ritirato. L’occasione è il suo anniversario di ordinazione presbiterale, avvenuta il 18 luglio 1970, e la pubblicazione dell’introduzione alla nuova edizione del suo fortunato volume biografico Ho scommesso sulla libertà (Solferino Editore).
Eminenza, ieri lei ha “compiuto” 50 anni di Messa. Quali sono state le tappe che più hanno segnato la sua vita sacerdotale in una Chiesa che lei definisce «amabile»?
Le esperienze significative sono molte. Anzitutto, a 18 anni, l’incontro con la realtà creata da don Luigi Giussani che mi ha strappato dall’intorpidimento della vita cristiana, avvenuto in me per quello che chiamerei un “sogno” di carattere politico e di giustizia, pur importante. Da quell’incontro ho invece còlto la necessità del nesso tra l’avvenimento di Cristo e la totalità dei fattori del reale, ossia che tutti gli elementi del reale potevano, nella prospettiva di questo legame, essere vissuti in una maniera diversa. È stato per me un momento decisivo di cambiamento, che ha anche determinato poi il mio ingresso in Seminario e il diventare prete. Devo anche ricordare i momenti di prova, come quello vissuto con la scelta di cambiare Diocesi nell’itinerario di preparazione al sacerdozio. Importanti sono state anche due malattie gravi che ho avuto: la prima si è protratta per un anno e mezzo, la seconda è una malattia cronica molto delicata, dalla quale tuttavia, con una buona terapia, ho imparato molto. Fondamentale e insperato è stato il dono di conoscere grandi personalità della Chiesa internazionale del nostro tempo e di poter lavorare con loro, soprattutto attraverso l’esperienza nella rivista Communio. Penso a San Giovanni Paolo II, ad Hans Urs Von Balthasar, a Joseph Ratzinger, a Eugenio Corecco. Devo essere riconoscente. C’è anche il mio rapporto con il mondo universitario e i compiti che la Chiesa mi ha assegnato, come Vescovo di Grosseto, una Diocesi missionaria molto singolare, ma molto bella, che, da giovanissimo, mi ha insegnato un poco a esercitare il ministero episcopale; l’esperienza di Rettore della Pontificia Università Lateranense e dell’Istituto Giovanni Paolo II; il Patriarcato di Venezia e, infine, l’Episcopato a Milano.
Come giudica la frequenza degli attacchi sempre più duri e insistenti – come lei stesso scrive – al Papa, soprattutto quelli dolorosi che nascono all’interno della Chiesa?
È un segno, secondo me, di contraddizione molto forte e denota appunto un certo infragilimento del popolo di Dio, soprattutto della classe degli intellettuali. È un atteggiamento profondamente sbagliato perché dimentica che «il Papa è il Papa». Non è per affinità di temperamento, di cultura e di sensibilità, per amicizia o perché si condividono o non si condividono certe sue affermazioni che si riconosce il senso del Papa nella Chiesa. Egli è la garanzia ultima, radicale e formale – certamente, attraverso un esercizio sinodale del Ministero petrino – dell’unità della Chiesa. Considero questa modalità di pronunciamenti, lettere, scritti, pretese di giudizi sulla sua azione, soprattutto quando si instaurano paragoni fastidiosi con i papati precedenti, un fenomeno decisamente negativo e da estirpare il prima possibile.
Cosa significa che ogni Papa «va imparato»?
Vuol dire, anzitutto, mettere in evidenza che nella Chiesa, e nella scelta degli uomini chiamati al presbiterato, all’episcopato e al papato, c’è sempre un misto di continuità e di discontinuità. Non c’è da scandalizzarsi della differenza culturale e temperamentale di papa Francesco rispetto a papa Benedetto o rispetto a san Giovanni Paolo II e ai predecessori. Anzi, questo è un elemento che porta ricchezza, perché assicura la possibilità del cambiamento dentro la Chiesa. «Imparare il Papa» vuol dire avere l’umiltà e la pazienza di immedesimarsi nella sua storia personale, nel modo con cui esprime la sua fede, si rivolge a noi, operando le scelte di guida e di governo. A dire il vero, lo spunto per la formula «imparare il Papa» ce lo offre san Giovanni Paolo II, ricordando che quando il cardinale Sapieha lo mandò a Roma – di cui il Papa è il punto di riferimento – disse che il Papa va, appunto, «imparato» pazientemente e non imitato supinamente. Certi gesti di papa Francesco, per esempio, mi colpiscono molto e sono certamente molto significativi per tutti, anche per chi non crede. Io, per il mio temperamento, non ne non sarei capace, ma ognuno ha la sua personalità.
Lei guarda con preoccupazione alla rinascente contrapposizione tra i “guardiani della tradizione”, come li definisce e – diciamo così – i riformisti, temendo l’indebolimento della missione universale della Chiesa. Basti pensare alle accuse avanzate durante il Sinodo panamazzonico di una certa settorialità o al Sinodo dei Vescovi tedeschi…
Sì, è vero, e in questi ultimi anni mi sono interrogato su tutto questo. Nella fase finale del mio Patriarcato a Venezia, e poi come Arcivescovo di Milano, vedevo una certa ricomposizione tra queste due tendenze, che negli anni Settanta avevano certamente indebolito la Chiesa italiana e la sua proposta ecclesiale, con scontri, talora anche dal punto di vista culturale, molto aggressivi. Almeno nell’esercizio del mio episcopato, mi era stato possibile riunire queste persone. Quando ero studente universitario a Milano, ricordo il grande lavoro operato in questo senso da Giancarlo Brasca, Segretario generale della Cattolica, il quale riuniva persone che venivano da varie realtà, spesso tra loro in conflitto. Lo fece con grande merito, secondo me, proprio per aiutare la ripresa del dialogo. Ora mi sembra che stiamo facendo un cammino a ritroso. Molti dicono che la Chiesa è indietro di tanti anni, io dico piuttosto che la Chiesa in Italia sta rischiando di tornare indietro, perché questa dialettica riemerge. In maniera magari più sottile, non così acrimoniosa come fu allora, però riemerge.
Come ha vissuto questo tempo di lockdown dovuto alla pandemia?
Sono stato chiuso in casa e, purtroppo, dovrò farlo ancora per via dei miei acciacchi. Però ho avuto modo di lavorare, di preparare conferenze ed Esercizi da predicare. Il mio problema primario – che c’era, evidentemente, anche prima del Coronavirus – è affrontare la vecchiaia Ho in mente infatti di scrivere qualcosa su due testi celebri: uno del cardinale Newman intitolato Il sogno di Geronzio (dal greco “vecchietto”), l’altro di Eliot intitolato pure Geronzio. Penso che la pandemia sia una grande provocazione perché pone in primo piano la questione che senza il senso del vivere non si riesce a vivere bene.
Cosa pensa del prolungato digiuno eucaristico che ha portato a non poter celebrare nemmeno la Pasqua?
È stata certamente un’occasione per renderci conto che l’Eucaristia è così imprescindibile che quando, per motivi indipendenti da noi, viene meno, si indebolisce la sostanza della fede. È sbagliato pensare che la pandemia sia un castigo di Dio, ma non dobbiamo credere che Dio non ci stia chiedendo qualcosa. Rendersi conto di questo è l’augurio che faccio anche alla nostra grande Chiesa ambrosiana.
Ecco, a proposito proprio della nostra Chiesa, cosa ricorda di questi anni milanesi sulla Cattedra di Ambrogio e Carlo?
Per me sono stati anni molto belli e decisivi. Per la mia storia personale è stato un ritorno a casa, perché sono nato in queste terre e ho sempre sentito molto l’ambrosianità. Nel cuore mi sono rimaste tante cose: ho imparato a capire meglio il dono dei nostri sacerdoti, soprattutto compiendo la Visita pastorale o comunque negli incontri in parrocchia. Il mio apprezzamento per il nostro clero è cresciuto molto e questo mi sembra una bella garanzia per il futuro della nostra Chiesa. Nella Visita pastorale mi hanno colpito molto le assemblee iniziali aperte a tutti i fedeli, non solo per la numerosissima frequenza, ma anche per la serietà della preparazione. Resta il dato della grande ricchezza della Chiesa ambrosiana che continua: lo si vede bene anche con l’Arcivescovo Mario, capace, come Ambrogio, di coniugare in maniera limpida, adeguata e rispettosa, la dimensione religiosa con la dimensione civile. La Chiesa ambrosiana è una Chiesa presente e viva, come ho detto nella mia Messa di congedo dalla Diocesi. Nelle sue radici è ancora una Chiesa di popolo, anche se, certo, potrebbe non restarlo ancora per lungo, se noi cristiani non ci disponiamo a una conversione quotidiana.