Nel Cineteatro Manzoni la seconda tappa della visita pastorale dell’Arcivescovo. Ai cinquecento presenti il Cardinale ha indicato la forza di una comunità capace di comunicare l’incontro con Cristo

di Annamaria BRACCINI

Busto Arsizio

«Chiediamo una parola che dia freschezza al nostro cuore, desideriamo un umanesimo nuovo che sappia inventare ancora, senza pigrizia e senza paura, le strategie della spiritualità e quelle dell’economia, quelle della cultura quotidiana e della solidarietà universale, le strategie del bene comune. Abbiamo bisogno di una grande apertura che ci aiuti a dedicarci alle novità dello spirito e ci renda pronti all’accoglienza dei poveri, quelli vicini e quelli che vengono da lontano. Come nel passato, da vicino e da lontano, la gente venuta a lavorare ha costruito questa moderna città». Le parole con cui monsignor Severino Pagani, Decano di Busto Arsizio e prevosto di San Giovanni Battista, saluta il cardinale Angelo Scola, appena giunto nel Cineteatro Manzoni gremito di oltre cinquecento persone, sono il segno di una comunità legata al suo Pastore e desiderosa di ascoltarlo nella seconda tappa della sua Visita pastorale. Accanto al Cardinale e al Decano siede il Vicario episcopale di Zona monsignor Giampaolo Citterio. In platea i 43 sacerdoti del Decanato, le autorità militari e civili – tra cui, in prima fila, il sindaco Farioli – e i membri dei Consigli pastorali.

«Grazie per aver compiuto il sacrificio di uscire dalle vostre case, così numerosi, in una sera di giorno lavorativo, ma d’altra parte questa Visita l’abbiamo voluta feriale proprio per trovare un tempo di ascolto reciproco nella semplicità, senza grandi cerimonie – spiega l’Arcivescovo -. «Decanato fortunato, il vostro, i cui confini coincidono con quelli della città, ma in una forte transizione che mette alla prova anche la nostra esperienza di Chiesa».

Due i richiami per contestualizzare il confronto: «Il primo presente nella Lettera pastorale Alla scoperta del Dio vicino (2012-2013), con la sottolineatura che Cristo, con l’insegnamento di Atti 2,42-47, ci ha lasciato un metodo per vivere di Lui, con Lui e in Lui, ossia l’insegnamento degli Apostoli, tradotto nel Pensiero di Cristo, attraverso un’espressione paolina: la comunione, nella consapevolezza che abbiamo in comune Cristo stesso nello spezzare del pane e nelle preghiere, l’impianto sacramentale della Chiesa illuminato dalla Parola di Dio per arrivare alla dimensione della testimonianza che genera la missione. Missione che non è una strategia, ma un comunicarsi pieno e gratuito che viene dall’incontro con il Signore».

Insomma, i quattro pilastri della vita di ogni cristiano. Da qui l’emergere di un secondo ambito, più direttamente riferibile alla nuova Lettera Educarsi al pensiero di Cristo, e nato dall’evidenza che, seppure diminuita, ma più convinta, la partecipazione all’Eucaristia domenicale c’è; ma manca l’educazione al gratuito, appunto al pensiero di Cristo, e la comunicazione franca e libera a tutti i nostri fratelli della bellezza del cristianesimo. Il problema è sempre quello del rapporto tra fede e quotidiano, «tra la vita sacramentale è quella di ogni giorno. Quando usciamo dalla Chiesa portiamo troppo poco “fuori” questo pensiero, questa mentalità, gli stessi sentimenti di Cristo, che ovviamente non vuol dire possedere la verità, ma avere cultura della fede. Se so che mi attende la vita eterna, vivo gli affetti, l’educazione dei figli, il rapporto con i beni in modo diverso», scandisce Scola. 

Ma cosa significa avere, in concreto, tale pensiero? Immediata la risposta: «In un mondo come il nostro, in cui diverse visioni della realtà si incontrano e diventano spesso conflittuali, pensare come Lui e pensare Lui attraverso tutte le cose, è un metodo perché la fede diventi sempre più gustosa e possa essere degna di essere comunicata».

Il rapporto tra la tradizione e la missione

Poi le domande dei fedeli, a gruppi di tre, preparate con un lavoro iniziato nelle riunioni dei rappresentanti di ognuna delle tredici parrocchie di Busto Arsizio, riviste raccogliendo comunitariamente spunti di riflessione e ora proposte al Cardinale. Dai linguaggi da usare alle relazioni, fino a come creare un nuovo spirito di appartenenza alla Comunità, tutto, nota l’Arcivescovo, «è come un fiume che scorre nell’alveo dei fondamentali della vita della Comunità. Occorre capire cosa sia il linguaggio cristiano, che non è chiamare i cosiddetti “esperti” e scegliere uno schema a tavolino, ma saper sviluppare il linguaggio della persona che impatta la realtà: ciò si chiama esperienza».

Il pensiero è per papa Francesco e la sua grande capacità comunicativa: «Questo papa attira tanto il popolo perché è coinvolto con ciò che dice. Il linguaggio della testimonianza supera ogni linguaggio espressivo, perché la testimonianza, che non è solo buon esempio, “muove”. Dobbiamo smettere con la mistica dei “lontani”, che è cattivissima consigliera, perché siamo tutti parte della famiglia umana. Se parliamo il linguaggio della testimonianza, non c’è artificio; se partiamo dall’esperienza reale del rapporto con il Signore, pensando Cristo e con Cristo attraverso la realtà, parliamo a tutti». È la grande e unica strada della vera educazione, quella non appresa sui libri, ma imparata “per osmosi”, anzitutto in famiglia, come esemplifica l’Arcivescovo attraverso ricordi di vita personale che creano un clima di straordinaria empatia con la platea, nel momento in cui indica la forza dell’appartenenza a Gesù che ci rende tutti un’unica famiglia. 

«La nuova appartenenza ha in comune quell’uomo martirizzato sulla croce, così che tale parentela diventa più potente di quella della carne e del sangue. Chi dice di non appartenere a nessuno, appartiene ai poteri dominanti dei mass media e dei giornali. Il rischio di perimetrare il gruppo dei “nostri” è sempre molto forte, ma senza il “noi” ecclesiale è molto improbabile che l’io regga. La vera comunità fa fiorire l’io e senza l’io la comunità si ferma e diventa ripetitiva. Anche le tredici parrocchie di Busto hanno bisogno di essere ridestate al giusto modo di pensare. Per noi pensare Cristo e secondo Cristo è questo modo giusto: per questo crediamo che la famiglia debba essere soggetto di evangelizzazione in tutte le sue articolazioni e nella Lettera pastorale sono descritti ben diciotto modalità per vivere questo protagonismo. È una rivoluzione copernicana, è il primo modo di chiudere il fossato tra fede e vita quotidiana, incidendo sulla comunità cristiana e, con le debite distinzioni, su quella civile».

Fede, cultura, carità e impegno politico

Secondo giro di domande: si discute di cultura, di coordinamento di fronte alle emergenze del settore caritativo e anche di impegno politico. «Non c’è mai stato un passaggio epocale della storia che abbia segnato, come l’attuale, una discontinuità: pensiamo alle neuroscienze, che pretenderebbero di delimitare le scelte dell’uomo, alla bioetica, alla sessualità che oggi viene banalizzata, ai fenomeni migratori che non sono un’emergenza, ma dureranno almeno altri cinquant’anni – riflette Scola -. Certo, le sfide sono epocali, ma se siamo qui è perché siamo cristiani, perché abbiamo incontrato il Signore Gesù con un’esperienza in tutto simile a quella che fecero i suoi amici. Qualunque sia il cambiamento in atto nella storia, abbiamo un punto di partenza solido. Un certo modo di sviluppare energie di solidarietà necessita di andare alla radicalità evangelica, vivendo ogni carisma, senza chiusure, altrimenti si rimane a livello di slancio filantropico. Stiamo andando verso un’epoca in cui la pluriformità è importantissima (basti pensare ai movimenti, ai gruppi e alle articolazioni) e rende persuasiva la vita cristiana, ma occorre tenacemente ricercare l’unità. Il coordinamento o sfocia nella comunione o, se è fenomeno puramente organizzativo, non porta a niente. Un avvenimento si comunica solo con un altro avvenimento: interroghiamoci se le nostre Comunità sono davvero luoghi del “vieni e vedi”, come dice il Vangelo».

In un tale orizzonte rientra anche la politica, «la cui dimensione è un caso specifico e delicato di questa carità. Alle elezioni c’è una preparazione remota che non può che essere appassionata alla città in cui si vive. Bisogna che il bene comune del vivere insieme sia scelto come bene sociale. In un continuo racconto reciproco, per una conoscenza sempre maggiore tra noi, la vera preparazione è narrare, testimoniare, dire chi siamo, perché se non esprimo con chiarezza ciò in cui credo nego il mio contributo alla costruzione di una vita buona. Ricordiamoci che la perdita della gratuità e della cultura ha cambiato la politica italiana (per questo il grande contributo cristiano ai movimenti degli anni del dopoguerra è venuto meno, o, comunque, se ne è persa la tradizione) e che, se dobbiamo costruire il bene politico della vita comune, dovremo pure fare delle scelte, costruendo un concetto realista. Rischiate, donne e uomini, in questo, ma occorre l’appartenenza alla radice».

Il nesso educativo e la trasmissione della fede

«Oggi è la “convinzione” che dobbiamo raggiungere. Siamo come sul “bagnasciuga” e abbiamo solo dieci, quindici anni per operare bene il passaggio dalla convenzione ala convinzione, andando al fondo dei termini emersi stasera, quali condivisione, solidarietà, partenza dagli ultimi come criterio per abbracciare tutti, appartenenza, cultura, comunità – conclude Scola -. Ecco perché ci vogliono adulti testimoni che sappiamo dare ragione di ciò che vivono, specie di fronte ai ragazzi. Quando il pensiero di Cristo è caduto, abbiamo perso l’idea che il Signore c’entra – e molto -, con la scuola e il lavoro, con la vita nel suo complesso. Per questo non riusciamo a superare la frammentarietà. Dobbiamo avere un centro affettivo nella vita, per noi Gesù, che ci permette di dire con San Paolo: “Vagliate tutte le cose e trattenete le buone”, che è un formidabile criterio di giudizio, ricordando pure che “tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”. Di questo tipo di educazione, basata sull’esperienza esistenziale, hanno bisogno i nostri giovani. Non dimentichiamo che il martirio della pazienza, dell’offerta della propria vita, fa parte della testimonianza».

Insomma, un dialogo bello, a 360° che a Busto – come dice il vicario Citterio – proseguirà lungo tutti questi mesi nell’approfondimento e nello svolgersi della Visita pastorale, «sapendo di essere e di poter coltivare un giardino prezioso».

 

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