Nella sua Visita pastorale il cardinale Scola ha incontrato il Decanato di Desio. Alle centinaia di persone riunite nel Teatro La Campanella e nella chiesa collegata per l’occasione l'Arcivescovo ha richiamato il valore decisivo della comunità

di Annamaria BRACCINI

Visita pastorale Desio

Un Decanato vivace, quello di Desio, dalla forte tradizione cristiana e impegnato sulle frontiere delle sfide di oggi e di domani, fa da cornice alla 38a Visita pastorale feriale dell’Arcivescovo che, accolto con grande affetto, arriva nel Teatro La Campanella di Bovisio Masciago. Il territorio comprende quattro Comunità pastorali (cui si aggiunge la parrocchia di Taccona) e quattro Comuni – Desio, Bovisio, Muggiò e Nova Milanese -, i cui sindaci siedono in prima fila, così come il clero. Sono collegate anche l’attigua Sala “Don Campanelli” e la chiesa di San Pancrazio.

Lo scambio della pace tra il folto pubblico apre l’assemblea. «Come negli altri anni abbiamo risposto alla crisi, oggi dobbiamo rispondere alla sfida educativa con gli oratori e le nostre comunità – dice il decano don Luigi Caimi, che siede accanto all’Arcivescovo col Vicario di Zona V monsignor Patrizio Garascia e il parroco di Bovisio don Giuseppe Vergani -. L’educarsi è l’anello debole di questa epoca e, nell’educare, dobbiamo partire dalla legalità, recependo che non si educa senza il pensiero di Cristo».

«Questo Decanato ha una responsabilità, perché non possiamo ricordare le sue grandi figure come Pio XI, il sindacalista cattolico Achille Grandi, padre Monti e don Luigi Giussani – tanto decisivo per la mia vita e la mia vocazione -, non per gloriarcene, ma per prendere esempio», dice subito il Cardinale, che spiega il senso di ciò che si sta vivendo: «Questo gesto ricava la sua fisionomia dall’assemblea eucaristica, che crea una dimensione ecclesiale e definisce uno stile. Come l’Eucaristia si attua in tre momenti, dal riconoscimento del proprio peccato e dall’atteggiamento di confessione, all’ascolto della Parola di Dio, in cui ci parla Gesù stesso, e all’Eucaristia, così deve essere stasera». Poi, l’articolazione della Visita pastorale stessa in tre steps – «vogliamo recepire una vita in atto» – e, infine, lo scopo dell’iniziativa: «Superare il divario tra fede e vita in questo cambiamento di epoca, per cui molti battezzati corrono il rischio di ragionare secondo l’opinione pubblica dominante e non secondo il pensiero di Cristo».

Si avvia così il dialogo, a partire «dall’attenzione alle buone prassi da coltivare per “l’età di mezzo”». «Ognuno si deve giocare in prima persona negli avvenimenti normali di vita, comunicando quello che conta. Il difficile non è comunicare, ma essere, perché si comunica solo ciò che si è». Decisivo, in questa ottica, «il rapporto con il Signore dentro la Comunità». «Dal concepimento alla morte siamo immersi in una rete di relazioni che ci chiede la comunicazione di ciò che siamo. Questo è il punto determinante», osserva Scola, ricordando che «i cosiddetti “lontani” non esistono, perché nessuno è lontano dagli affetti, dal lavoro e dal riposo. Nella progressiva secolarizzazione ci siamo ritratti dalla vita concreta e, quindi, non siamo più stati portatori del Figlio del Dio incarnato, ne abbiamo perso il riferimento, sganciando il nostro agire dal “per Chi” proponiamo iniziative». Un atteggiamento, questo, profondamente sbagliato, «perché tradisce il valore dell’incarnazione di Gesù», la comunicazione di come il Signore «mobilita il mio modo di affrontare l’esistenza», portando al lamento sterile. Al contrario, suggerisce ancora l’Arcivescovo, «la parrocchia e il Decanato devono essere i luoghi che permanentemente mobilitano i miei affetti, il mio modo di amare e lavorare, di affrontare il dolore. Come faceva Gesù, si tratta di dilatare il bisogno in desiderio, cambiando la vita».

Si continua parlando degli strumenti della comunicazione e di come «muoversi con gioiosa speranza, a livello personale e comunitario, in mezzo ai nostri fratelli uomini». «La genesi della gioiosa speranza – bellissima questa espressione che ricorda la definizione di Péguy della speranza come «virtù bambina», nota il Cardinale – è comprendere la vita come vocazione, in cui la comunità ha il compito di reggere, sorreggere e, se il caso, correggere la libertà personale. Ecco il processo che non è una strategia, ossia un mezzo per ottenere il potere, non siamo degli agit-prop, ma lo strumento per comunicare ciò in cui crediamo». Come a dire che «lo stile della comunicazione è la testimonianza» e, se dunque la missione non è una strategia, «anche gli strumenti vanno utilizzati come mezzi», secondo la loro natura, con un grande abbraccio aperto verso ciascuno. «Il cristianesimo è un umanesimo compiuto, la più grande scuola di realismo che si confronta con tutti, come abbiamo voluto sottolineare con i “Dialoghi di Vita Buona”».

Poi, ancora, con l’interrogativo ormai ineludibile in ogni Visita sull’immigrazione, qui presente in modo particolare con le etnie rumena, magrebina e pakistana, soprattutto a Desio (dove in queste ore stanno arrivando una decina di nuovi profughi ospitati in città): «È una provocazione che la Provvidenza ci manda e che non è slegata dalla stanchezza che l’Europa sta vivendo, almeno dalla seconda guerra mondiale, come si evidenzia nel terribile e attuale fenomeno del gelo demografico. Non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha voluti liberi in una storia umana che è luogo di incontro e scontro di libertà, anche se l’abbraccio di Cristo tiene dentro tutto e tutti», scandisce Scola, richiamando la necessità di essere certi «che il disegno di Dio, di cui conosciamo la meta, è buono anche nei processi inediti che siamo chiamati a vivere». Cosa può fare allora la Chiesa? «Farsi prossimo nella prima accoglienza. Al fenomeno, che certamente è complesso e ci scomoda, non si può rimediare con muri e fili spinati, ma ognuno deve fare la sua parte con equilibrio. Da tempo dico che occorrerebbe un “Piano Marshall”, ma purtroppo la debolezza dell’Europa rende tutto più complesso». Il pensiero è «alla creatività tedesca e alla chiusura austriaca» e all’Italia, «aperta, ma poco incidente e creativa». Eppure, da qui, «dall’accoglienza e della vivacità della società civile, verrà fuori il volto del nuovo milanese ed europeo, come già si evidenzia nel dialogo interreligioso, nell’ecumenismo, nella possibilità di un’educazione dei più giovani nei nostri oratori».

E proprio sulla possibilità «di vincere la frammentazione a livello giovanile» emerge l’ultima domanda, elaborata dai Lavori di gruppo della Comunità di Nova Milanese: «Per vincere la frammentazione che spacca e non permette la comunicazione, si deve vivere un’esperienza di Chiesa che sia il luogo del “per sempre”». Il riferimento è ai quattro Fondamentali della vita cristiana che edificano la comunità in senso integrato. «Lo dico con particolare forza ai preti giovani e che si occupano dell’oratorio – ripete più volte l’Arcivescovo -. L’immersione nel rapporto sacramentale con Gesù illuminato dalla Parola di Dio, l’educazione al gratuito che nasce dall’amore vero, il pensiero di Cristo e la semplicità della comunicazione a tutti i livelli, sono la base. Se non si matura un’esperienza di appartenenza alla comunità, che nasce dall’incontro e chiede di permanervi, alla lunga non si dura».

 

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