Al Cinema Teatro Manzoni di Sesto San Giovanni l’incontro tra l’Arcivescovo e sacerdoti, religiosi e laici del Decanato per la Visita pastorale:«L’indifferenza nasce quando Cristo diventa una realtà astratta. O l’appartenenza alla Chiesa fa fiorire la libertà o non sarà attrattiva»
di Annamaria BRACCINI
Una grande storia, una propria peculiarità, una vicenda-simbolo dell’Italia delle fabbriche e che ora ha comunque nella Chiesa un riferimento vivo, attraverso la realtà di dieci parrocchie, non chiuse nell’autoreferenzialità, ma attente a una cura e una solidarietà da sempre radicate nella comunità di Sesto San Giovanni. Don Franco Motta, decano del Decanato che copre l’intera città, definisce cosi la presenza ecclesiale sestese accogliendo il cardinale Scola che, al Cinema Teatro Manzoni, compie la sua Visita pastorale “feriale”, attesa e a lungo preparata dalla gente e dai sacerdoti, attraverso incontri, l’elaborazione di una relazione di sintesi e la preghiera. Un’assemblea che, fin dai primi momenti, non può che fare i conti col territorio in cui si inserisce, abitato da 84.639 persone, per il 17,4% di origine straniera (considerando solo gli immigrati regolari iscritti all’anagrafe del Comune).
Proprio di un «travaglio» di Sesto, impegnata «a disegnare il suo nuovo volto», parla il Cardinale all’inizio del suo intervento: «Un travaglio certamente un atto in tutte le terre ambrosiane, ma qui maggiormente marcato nel senso di una domanda più radicale che permette quella “Chiesa in uscita” su cui vogliamo insistere come Diocesi», spiega l’Arcivescovo, offrendo le “coordinate” della Visita pastorale stessa. «Per noi cristiani riunirsi è proporre un prolungamento dell’assemblea eucaristica, fatta di partecipazione diretta, di ripresa dei temi, a livello comunitario e personale, della coscienza che il Signore sarà con noi fino all’ultimo giorno e che il suo Spirito è qui e ora, con noi, sopra di noi, in noi. Questo ci permette di spalancarci al dialogo».
Un’assemblea ecclesiale, dunque, «che dice un tono, un modo di cambiare, di comunicare se stessi nella verità, di sporgerci, di esporci parlando della realtà». Una Visita “feriale” che, sviluppata in tre tappe, deve «inserirsi nella vita normale della Comunità», articolandosi nella presenza dell’Arcivescovo, nella particolarizzazione, sotto la guida dei Decani e dei Vicari di Zona, per affrontare quello che sembra il bisogno più urgente, arrivando infine al terzo momento, curato dal Vicario generale e da tutti i sacerdoti, che metterà a fuoco «il passo da compiere nella singola parrocchia e nel Decanato». E tutto questo con l’obiettivo di superare la frattura tra fede e vita, attraverso l’educazione al pensiero di Cristo e in una logica per cui il Decanato «non è una struttura in più, ma una realtà che unifica». Da qui, una riflessione rivolta da Scola direttamente ai presenti: «Chiediamoci perché facciamo fatica a pensare con la mente di Cristo quando usciamo di chiesa, perché non ragioniamo secondo lo sguardo e il cuore di Gesù. È la mancanza di tale atteggiamento impedisce il superare la frattura tra fede e vita. Avere la stessa mentalità di Cristo non è un pacchetto di istruzioni, ma un modo di rendere la vita più umana restituendole per intero il suo fascino».
Poi, il dialogo. Mario chiede: «Considerando che a Sesto gli anziani sono quasi il doppio dei giovani, come fare un passo in più?». Eugenio, responsabile della Caritas decanale, domanda: «Quale può essere lo stile di vita per superare l’indifferenza dell’uomo di oggi e come ridare gusto e passione in un mondo dove l’indifferenza tende a minare la possibilità del rapporto di amore?».
«Non ci sono “istruzioni per l’uso” per la vita cristiana – risponde l’Arcivescovo – e l’unica strada è orientare l’intera esistenza in senso vocazionale. Questo è lo scopo di qualsiasi educazione. Ciò significa che è la vita stessa a essere vocazione, al di là delle scelte a cui siamo chiamati nel corso degli anni. Se non si concepisce così l’esistenza non può esistere realizzazione. La vita prende significato nel nostro progressivo donarci, perché se non la doniamo il tempo la porta via inesorabilmente. Quindi bisogna coinvolgerci con Gesù, che ci chiama in ogni circostanza e rapporto». La vita, insomma, è un incontro da comunicare con la «modalità dell’ascolto e del raccontarsi nell’essere Chiesa». Prospettiva molto diversa, chiaramente, da un semplice «programmare iniziative», perché dobbiamo sempre chiederci «non solo “perché” ci impegniamo, ma “per Chi” lo facciamo». «L’indifferenza – sottolinea Scola – nasce quando Cristo diventa una realtà astratta» e non si sperimenta, appunto, la vita come vocazione, in una logica tanto più necessaria oggi «nella fase post-moderna e confusa in cui un’epoca è finita, e l’uomo e la società hanno assunto, nel rapportarsi alla realtà, una forma narcisistica, anzi autistica».
Che fare, allora? Immediata la risposta: «Prendere sul serio la proposta cristiana, attraverso la vita parrocchiale e decanale, prendendosi cura della Comunità, radicata nella liturgia e nei Sacramenti illuminati dalla parola di Dio, pensando Cristo attraverso tutte le cose». In questo modo la Comunità diviene luogo di vita, secondo i quattro pilastri fondamentali della Chiesa delle origini, già delineati nella Lettera pastorale Alla scoperta del Dio vicino. «Una vera comunità che fa fiorire la libertà, e ci rende, appunto liberi dall’esito e dal risultato quantitativo», scandisce l’Arcivescovo.
Infine, ancora tre quesiti. Da Franco, «come risvegliare nelle famiglie la voglia di essere protagoniste», da Annamaria sulla pastorale di insieme e decanale e da don Leone «su cosa tessere per realizzare percorsi di condivisione».
«La possibilità di “uscire” nel mondo si lega alla condizione umana di ogni fratello e sorella che tutti condividiamo. Dobbiamo realizzare la famiglia come Chiesa domestica, secondo l’espressione usata da Giovanni Damasceno, attualizzata dal Concilio, ma che ancora va pienamente concretizzata. La famiglia – questo è il risultato più significativo delle due Assemblee sinodali dedicate ad essa, nota Scola – deve essere soggetto di evangelizzazione. Ma qui torna l’educazione al pensiero di Cristo, che è il motivo per cui viviamo».
Il consiglio è anche molto pratico: «Meno riunioni, ma più estroversione, incontrandoci per vedere come la fede e il bene che ci vogliamo può illuminare l’esistenza reciproca, perché la vita nasce solo dalla vita. Non possiamo “gonfiarci” solo di iniziative: la forza della Comunità pastorale e del Decanato è promuovere ciò che fa fiorire la relazione dell’io con il tu. O l’appartenenza alla Chiesa fa fiorire la libertà o non sarà attrattiva e perderemo, così, sempre di più le generazioni di mezzo, costruendo comunità solo di pensionati e di adolescenti. Per evitare “una dialettica che diventa feroce” – usando le parole di don Leone – occorre la testimonianza. Ognuno comunica quel che è: non vogliamo egemonizzare nessuno; semplicemente, se lo stile di vita cristiano è con-veniente alla mia persona, lo comunico nelle mille occasioni di ogni giorno. Se mi limito solo a dare il buon esempio, dò gloria solo a me stesso e non a Cristo. Non accendiamo la lampada per metterla sotto il moggio».