Nella chiesa di Santa Maria Annunciata, di cui è parroco, il Cardinale ha presieduto la celebrazione eucaristica nella Festa del Perdono, secondo l’antica tradizione della Ca’ Granda

di Annamaria BRACCINI

Nel giorno della Festa del Perdono, che fin dal 1459 permette di ottenere l’indulgenza plenaria a quanti visitano l’antica cappella ospedaliera della Ca’ Granda (oggi ve ne sono 3 nel complesso della Fondazione), il cardinale Scola presiede l’Eucaristia della Solennità dell’Annunciazione, che ricorre normalmente il 25 marzo. Ma quel sabato a Milano era in visita il Papa e quindi l’Arcivescovo, come capo del Rito ambrosiano, con un suo specifico decreto firmato ieri, ha trasferito per questo anno liturgico la solennità. Nella parrocchia intitolata proprio a Santa Maria Annunciata – di cui l’Arcivescovo di Milano è parroco dai tempi di san Carlo -, interna alla sede dell’Università degli Studi, ci sono i vertici dell’Azienda ospedaliera con i 4 direttori (generale, amministrativo, scientifico e sanitario), alcuni dei membri della Diaconia impegnata nel Policlinico e tanti studenti universitari, di cui alcuni fungono da chierichetti.

«È una gioia grande averla ancora qui con noi nella sua parrocchia – dice nel suo saluto di benvenuto don Giuseppe Scalvini, cappellano dell’Ospedale, che concelebra col responsabile del Servizio diocesano per la Salute don Paolo Fontana e il responsabile della Pastorale universitaria e cappellano della Statale don Marco Cianci -. Lei è a casa ovunque, ma all’Annunciata, nella Festa del Perdono, è proprio casa sua. Tutti abbiamo bisogno di essere perdonati e di perdonare. La nostra chiesa è un luogo di comunione che unisce ministero e servizio mettendo al centro la persona».

«Vi ringrazio per il lavoro professionale e competente verso gli ammalati a cui voglio far pervenire il mio personale abbraccio – dice il Cardinale avviando la sua omelia -. Ringrazio le realtà ospedaliere e il mondo universitario, i familiari, gli operatori sanitari, i volontari, i sacerdoti, i religiosi e le consacrate che rendono possibile la dilatazione della cura terapeutica alla cura globale della persona intera. Ci troviamo in un luogo di sofferenza e prova, in cui si è chiamati a combattere la malattia, non solo come anticipo del nostro destino di carne, ma a combattere la morte affermando, sempre e in ogni caso, la vita dal concepimento al suo termine naturale. La malattia e l’ombra della morte interrogano tutti», prosegue in riferimento alla grande realtà storica, ma vòlta al futuro del Presidio ospedaliero. «Questa Ca’ Granda, che impressionò per secoli molti visitatori di Milano – luogo in cui la civiltà e il senso religioso erano impegnati in modo scientifico a curare la malattia e a liberare il più possibile dalla morte terrena gli abitanti della città – sta ora rinnovandosi. Il progetto di creare un ospedale nuovo avanza e sarà certamente uno dei tanti segni della rinascita di Milano», osserva Scola. Un luogo in cui «paradossalmente ciò che viene a colpirci è l’affermazione dell’Angelo (la pagina di Vangelo appena proclamata è quella dell’Annunciazione in Luca al capitolo 1, ndr), “Rallegrati, o piena di grazia”, in cui fa irruzione la dimensione invisibile e soprannaturale della nostra esistenza. La convinzione che in ogni momento la compagnia di Dio si prende cura di noi». Un concetto rivoluzionario, come lo definisce il Cardinale, perché il termine cura tiene dentro il termine medico, in senso stretto, e il care, appunto il prendersi cura.

Da qui il significato della presenza dell’Arcivescovo e della Chiesa in spazi come la Ca’ Granda, «per dirci che, comunque la si pensi, la questione del senso del vivere si gioca ogni giorno e la malattia è come un campanello di allarme», che rivela la nostra finitudine. La domanda che bussa alla coscienza, insomma, è quella a cui non si può sfuggire: per chi si vive e come ci si intende porre di fronte alla prospettiva del dopo morte, dell’aldilà: «Indipendentemente che si abbia o no la fede, non si può evitare questi interrogativi, specie se si ha la responsabilità della cura del paziente, perché l’uomo non regge stabilmente e, soprattutto creativamente superando quella che il Santo Padre, in Duomo, ha chiamato la rassegnazione che porta all’accidia, se non tiene desta la domanda di senso. Non possiamo rifugiarci nella sterminata conoscenza quantitativa, non bastano le pur necessarie competenze perché la domanda del senso si compia. Siamo noi che dobbiamo porre la questione del nostro essere al mondo». E anche dell’uscirne, suggerisce il Cardinale, «non per l’annullamento del nostro io, ma per essere accolti nella casa piena di porte aperte che è la Trinità. Dio non è un fortino da espugnare, ma un abbraccio che ci accoglie. Questo destino di accoglienza si iscrive nel pensiero della cura e diventa una prospettiva stabile di salvezza».

L’invito è a riflettere di più sulla frase decisiva del Vangelo dell’Annunciazione, “Nulla è impossibile a Dio”: «Siamo capaci di abbandonarci al Signore? Di intravedere, dai molti segni dell’amore, la forza del Crocifisso? Avvicinandoci alla Santa Pasqua, guardiamo a Lui e lasciamoci guardare».

Ti potrebbero interessare anche: