Presiedendo il Pontificale in Duomo del giorno di Natale, l’Arcivescovo ha definito il senso di un “non avere paura” radicato nella certezza di Dio-bambino che è il Messia e il Redentore di tutti

di Annamaria BRACCINI

pontificale natale scola 2015

La paura che può essere – che è – sopraffatta dalla gioia, la stessa risuonata duemila anni fa nelle parole dell’Angelo ai pastori e che oggi la Chiesa ancora rivolge all’intera famiglia umana, «ripetendoci: “Non temere”».

Il cardinale Scola presiede il Pontificale del giorno di Natale concelebrato dai Canonici del Capitolo metropolitano in Duomo, proseguendo idealmente nella riflessione e nell’auspicio che, già, poche ore prima, nella Celebrazione della Notte, lo ha visto farsi portatore di speranza, nel nome di quel neonato che salva.

E, allora, torna, nell’omelia dell’Arcivescovo, il senso di un cammino sempre possibile, perché guidati da una luce certa, quella del Signore, del Dio-uomo, che non ci abbandona mai. In una parola, dela forza che permette di rincominciare sempre, di non “avere paura” anche se non è facile «quando la guerra dilaga in tutto il pianeta, quando migliaia di uomini e donne sono costretti a fuggire e a rifugiarsi fuori dalle loro terre, quando le nostre stesse esistenze appaiono minacciate non solo da efferati attentati terroristici, ma dalla violenza dell’esclusione, dello scarto, della fame e della miseria, di una cultura incapace di accogliere la vita dal suo concepimento al suo fine naturale».

E, allora, la domanda che si affaccia alla mente e al cuore, anche a Natale, giorno di luce e di pace per eccellenza, è una sola, «come non cedere al timore».

Immediata la risposta: «A questa domanda è possibile rispondere solo accogliendo fino in fondo l’annuncio dell’Angelo. Possiamo vivere non subendo il ricatto dalla paura perché Dio ha mandato Suo Figlio nella fragile carne di un bambino “avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”». Un Dio che,è facile riconoscere, è alla «alla portata di ognuno».

Qui è la sorgente della vera speranza che, vincendo ogni paura, “ha parlato a noi”, come si legge nella Lettera agli Ebrei, se solo la si ascolta: «Che uno creda o non creda il fatto che Dio si sia fatto, in questo modo, uno come noi resta, lungo i secoli, una notizia sbalorditiva. Tanto che si è scritto che Dio è morto, ma ne parliamo tutti i giorni, la sua “diceria” attraversa i secoli, le culture e i popoli. Ce lo ricorda il genio di san Francesco inventando il presepe, usanza anche oggi, se ben capita, di portata universale», scandisce l’Arcivescovo.

Forse, proprio perché il presepe rappresenta ed è il simbolo dell’esistenza umana più autentica, dove si è una famiglia, dove viene alla luce un bimbo che, per il piccolo povero di Betlemme, significa essere Lui stesso luce che inaugura una nuova parentela.

Infatti, nota Scola, «non siamo qui per venerare un Dio astratto, ma siamo nella casa più propria dei milanesi, il Duomo, perché siamo, con il Signore, una sola famiglia e fatti fratelli».

E, così, l’annuncio che questo tenero bambino è il Messia tanto atteso, interroga e ci pone la «grande domanda di fondo: “Che ne faccio della mia vita”, quale è il “posto” che Dio rioccupa?”.

Quel Dio vicino che nasce oggi e diverrà vittima, il “potente inerme”, vittorioso sulla croce, il “Principe della Pace” che sconfigge ogni timore perché, secondo l’Epistola agli Ebrei, è l’«irradiazione», cioè il riflesso luminoso di Dio. «Egli è infatti Dio come il Padre. Ed è, nella Sua differenza interna alla Trinità, l’«impronta» personale della gloria del Padre stesso. In Dio si danno i Tre che sono Uno. Qui è l’origine del perenne fluire dell’Amore, che sentiamo particolarmente forte in questi giorni, da cui proviene l’incarnazione. L’uomo-Dio è il Messia tanto atteso: Gesù Cristo si rivela il centro del cosmo e della storia. Egli è il nostro Salvatore e Redentore».

Come a dire, nell’incarnazione e nella croce, la nuova parentela si rende concreta ed evidente, obbligandoci, quali figli nel Figlio, alla fraternità che «può e deve diventare criterio di una vita pubblica, segnata dal delicato, ma inscindibile nesso tra misericordia e giustizia, una misericordia che non sia “buonismo” e una giustizia capace di non essere oppressiva e ingiusta. Nesso difficile, come si vede nelle carceri», osserva il Cardinale.

«Anche nelle odierne società occidentali dell’“individualismo compiuto”, così gli studiosi le chiamano, Dio viene ad abitare in mezzo a noi per as-sicurarci della sua indefettibile compagnia. Sul tronco inaridito di una popolazione sempre più “vecchia”, continua ad innestare un germoglio di vita nuova, capace di ri-creare ogni uomo nel suo volto originario di io-in-relazione e spalancato, per questo, agli altri»..

Dunque, «questo Natale del Giubileo della Misericordia sia occasione per tutti di educarsi alla gratuità non solo nell’uso sobrio dei propri beni, ma anche nell’uso del proprio tempo e dei nostri talenti. Il dono, se è vissuto con l’intenzione di dare all’altro qualcosa di se stessi, inaugura un legame sociale nuovo e rigenera la comunità».

E tutto questo con, nel cuore, come credenti in Cristo, l’antica invocazione di san Brandano – «O Signore Gesù Cristo, per il mistero della tua natività, abbi pietà di me» e un augurio – rivolto dal Cardinale in più lingue – che va al di là di ogni confine.

E, alla fine, prima della benedizione papale con l’indulgenza plenaria – “per facoltà ottenuta da sua santità Francesco” –, il pensiero dell’Arcivescovo torna alle difficoltà che tanti vivono, a «ciò che ci pesa sul cuore» nella certezza che la gioia che «promana dal bimbo di Nazareth vincerà e aprirà alla speranza. Per questo dobbiamo realmente passare, in questi tempi, dalla Porta santa del Giubileo, chiedendo perdono, ma anche allargare le porte del cuore con l’ospitalità e il sostegno a chi è nel bisogno talora estremo, anche nelle nostre vie di Milano. Cerchiamo di trovare forme di ospitalità e di accoglienza per condividere, in modo semplice, il dono della fede cristiana o, almeno, della ricerca del senso della vita». Bello, in questo senso – e l’Arcivescovo lo sottolinea – che le ostie per le Celebrazioni di Natale in Cattedrale siano state prodotte e offerte dai detenuti del carcere di Opera, che «vogliono così essere presenti e portare il loro augurio a tutti».

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