Nella celebrazione eucaristica presieduta in Duomo l'Arcivescovo ha invitato a coltivare la «pluriformità nell’unità» e a cercare di comprendere lo stile di amore che viene da Cristo
di Annamaria BRACCINI
Nella IV Domenica dell’Avvento ambrosiano che ha per titolo, “L’ingresso del Messia”, la domanda sul “Chi viene”, attraversa, come un filo rosso, tutta la Celebrazione eucaristica presieduta in Duomo dal cardinale Scola e la sua stessa riflessione.
Tra le navate della Cattedrale gremita – particolarmente lunghe le code che si formano all’esterno, a causa dei controlli necessari per entrare – ci sono i fedeli della Zona pastorale V (Monza) con il loro Vicario episcopale, mons. Patrizio Garascia, gli aderenti al Movimento di Comunione e Liberazione, alla Prelatura dell’Opus Dei, ai Focolari e alle Cellule di Evangelizzazione Parrocchiali, cui si aggiungono la parrocchia e i ragazzi della Cresima di Vedano al Lambro e i fedeli della CP “Beato don Carlo Gnocchi” di Inverigo.
A tutti – molti i presbiteri che concelebrano, tra cui gli assistenti spirituali e i sacerdoti delle realtà invitate – si rivolge l’Arcivescovo: «Chi è, per noi, Colui che viene? È il Signore Dio, che si rende presente al suo popolo nella figura del re-Messia del Vangelo».
Un re che è «figura paradossale. Gesù, il Figlio dell’uomo, viene invocato come re ma non come un re potente, bensì umile e mite perché obbediente alla volontà del Padre. Umiltà e obbedienza ecco la vera “figura” del potere, di ogni potere che consiste in questo e solo in questo, anche quello che è quotidianamente a nostra disposizione e che altrimenti degenera in involuzione, violenza, smarrimento e depressione».
Da qui l’interrogativo stringente: «Chiediamoci, noi qui riuniti, se guardiamo con regolarità a Gesù che lenisce le ferite del nostro male, se prendiamo fisicamente in mano qualche volta il Crocifisso per scrutarne da vicino i lineamenti, quando siamo immersi nella distrazione e nell’oblio o siamo nella prova. Accogliamo il Dio che viene per noi con il suo intenso stile di amore».
La questione è quanto tale “stile” sia conosciuto, come osserva il Cardinale: «Quella del Signore non è una prova di forza, ma un’offerta di tenerezza, perché viene senza imporsi, ma offrendosi. Così Gesù ci accompagna alla soddisfazione intesa come compimento della nostra persona. Per questo i Padri della Chiesa ci insegnano che davanti a Cristo non dobbiamo stendere più mantelli, ma le nostre stesse persone, con il dono del nostro tempo, delle nostre energie, della nostra mente e del cuore».
Anche perché per «per sua natura l’amore domanda reciprocità nel rispetto della libertà» e, quindi, all’amore gratuito di Gesù occorre rispondere con altrettanta generosità. Tornano, così, le domande. «Chiediamoci, con atteggiamento di confessione, se aspiriamo a tale stile del Dio che si fa un tenero bimbo. Il nostro rapporto con Lui è personale e tendenzialmente quotidiano? Cristo è presente nella vita dentro e non accanto, non per episodi o gesti, per quanto sublimi, ma radicalmente così che in tutti gli ambienti dell’umana esistenza sia Lui a muovermi? Qualunque cosa stia facendo la faccio per Lui, in Lui e con Lui?».
Questa è l’obbedienza alla nostra vocazione di cristiani.
«Sulla scia del commosso abbraccio di Maria, di Giuseppe, dei pastori e dei Magi, questa attesa deve essere impregnata da Cristo, dalle sue azioni, dal suo modo di sentire, fino al suo estremo sacrificio per amore nostro. A Natale Egli viene per la nostra risurrezione. Eppure quanta sfrontatezza è la nostra che pieghiamo questa presenza, che ogni giorno ci abbraccia e circonda, alla nostra situazione sentimentale e alla nostra emotività».
Ma «questo è l’uomo», con la sua fragilità congenita, dice Scola non nascondendosi «la tendenza all’individualismo esasperato, paragonabile, in questa epoca post-moderna, a un autismo spirituale». Magari stiamo tutti insieme, immersi nella folla, – nota, ancora – ma siamo soli.
«Gesù è venuto a guarirci da questa solitudine cattiva, dalla ferita mortale che sembra recidere le relazioni costitutive del nostro io. È Lui che, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, viene a guarire. Oggi si parla sempre di nuove relazioni, ma quale è la loro natura? Non il caso fortuito, non l’attrattiva sentimentale, ma la sostanza che abbiamo in comune Cristo. «L’Avvento è il tempo propizio per accorgerci di questo suo dono, dobbiamo amare Gesù perché questo amore diventi principio nuovo di azione e di relazione».
«Cominciamo a entrare nell’ottica del grande dono della visita di papa Francesco: egli sarà testimone privilegiato di questo annuncio rivolto a ogni uomo e donna delle nostre amate terre lombarde. Ognuno deve farsi attore di tale attesa in ogni momento, dal primo mattino con un segno di croce alla sera, con un’Ave Maria».
E, infine, ancora il richiamo alla necessità di compiere, in questa settimana, almeno un’opera di misericordia corporale. Il pensiero è al criterio di comunione, a quella pluriformità nell’unita su cui sta lavorando il Coordinamento Diocesano delle realtà parrocchiali e associative e sulla quale si è soffermata l’ultima e recentissima Sessione del Consiglio Pastorale Diocesano. Un’unità che «si deve sempre più praticare perché il mondo ne ha un grande bisogno».