Il cardinale Scola ha presieduto la Celebrazione della Passione e Deposizione del Signore in un Duomo gremito. L’offerta totale di sé, come avvenne per il Signore e accade oggi per tutti i martiri, è anticipo della risurrezione, ha detto l’Arcivescovo
di Annamaria BRACCINI
Il grido di Gesù che muore in croce, mentre nella Cattedrale, ogni luce si spegne e calano le tenebre, è lo stesso grido di angoscia e dolore di ogni morte ingiusta e violenta.
Sul Calvario a Gerusalemme e, duemila anni dopo, sul terrificante Gòlgota di roccia delle Alpi dove va a schiantarsi un aereo con il suo carico di centocinquanta innocenti.
Il cardinale Scola, in un Duomo affollatissimo, presiede la Celebrazione della Passione e Deposizione del Signore. Con lui sull’altare maggiore ci sono quattro Vescovi ambrosiani, il Capitolo metropolitano e i seminaristi.
Dopo aver proclamato lui stesso il Vangelo di Matteo – è l’unica volta che accade durante l’anno – la riflessione sulla Passione è, nelle parole, del Cardinale, un monito accorato a riconoscere il “grido del mondo” e la misericordia del Dio incarnato.
«Quel grido lacerante dell’Innocente Crocifisso in qualche modo lo conosciamo. È risuonato e risuona continuamente nella nostra storia di uomini.
È il grido, rimandatoci con spietata fedeltà dalla scatola nera, dei centocinquanta passeggeri dell’aereo tedesco un attimo prima di venir schiantato contro la roccia.
È il grido dei martiri bruciati vivi, delle madri, dei padri, dei figli separati violentemente dai propri cari e dalla propria terra, il grido ormai sfinito, ridotto allo straziante lamento dei bambini che muoiono di fame – vergogna del nostro opulento mondo occidentale – il grido delle giovani donne violate e spogliate di ogni dignità, delle vittime di ogni più micidiale emarginazione e violenza. È l’orrore per il terrificante eccidio ed il rapimento di cristiani perpetrati in Kenya».
E anche il grido, non meno drammatico, della nostra impotenza a sfondare la porta del male inspiegabile e ingiustificabile, dell’angoscia perché non riusciamo a difenderci da questo stesso male, per l’impossibilità di evitarlo».
Di fronte al peccato che «desertifica e estrania da tutto e da tutti – ed è per questo che, se assunto con consapevolezza e confessato, provoca dolore, nota l’Arcivescovo –; davanti alla facilità con cui accettiamo di compierlo e che dimostra quanto siamo lontani noi stessi dal nostro cuore oltre che da quello degli altri, la fede è, comunque, primizia di risurrezione. Così come testimonia ancora una volta il presente, con i suoi tanti martiri, simboleggiati dai tre fanciulli della Lettura del profeta Daniele che si legge nella Liturgia della Deposizione che viene proclamata poco dopo. « Essi, senza spirito di vendetta, giungono fino a dare la vita. Come è possibile? Custodiscono, inscritta nella carne del loro io, una certezza inestirpabile: hanno lo sguardo rivolto al crocifisso e si lasciano abbracciare dalle sue braccia spalancate. Dio ci ama per primo, in ogni istante, come se fosse l’ultimo istante. E soprattutto sono convinti, come invece spesso noi fatichiamo ad essere, che ovunque cadiamo, cadiamo nelle sue mani».
Perché, come scriveva papa Benedetto, «dove nessuno può accompagnarci Dio – il Dio di Gesù Cristo – ci aspetta».
Quel Cristo a cui guardare perché morto, in queste ore, permette a noi la vita, per sempre.
Poi, la grande croce portata ai piedi dell’altare maggiore e offerta all’adorazione dei fedeli, la preghiera universale e la Liturgia della Deposizione e infine,, la croce che viene velata.