Il Cardinale, presso il Santuario dedicato al beato don Carlo Gnocchi, ha dialogato con il filosofo Salvatore Natoli sul saggio “Pedagogia del dolore innocente”. Si sono concluse così le Celebrazioni per il 60esimo anniversario della morte del “Papà dei mutilatini”
di Annamaria BRACCINI
In un tempo, mai come in questi ultimi giorni, segnato dal tema del dolore e della malattia, anche nei fatti di cronaca, forse bisogna – è necessario fermarsi – e ascoltare il cuore. Il proprio, quello degli altri e avere compassione nel senso etimologico del patire insieme. E quando, poi, lo si fa in un luogo che è simbolo di fede, di amore e di riscatto dalla malattia, come il Santuario del beato don Carlo Gnocchi, tutto pare prendere una luce diversa.
Si chiude l’Anno di Celebrazioni per il 60esimo dalla scomparsa del “Papà dei mutilatini” e, così, si riflette sul suo testamento spirituale, il saggio “Pedagogia del dolore innocente”, apparso a poche ore dalla morte di don Carlo.
Accanto alle spoglie del Beato poste sotto l’altare, ci sono due relatori di eccezione, il cardinale Scola e il filosofo Salvatore Natoli, entrambi autori di riflessioni approfondite nella riedizione, pubblicata da “San Paolo”, del saggio di don Gnocchi. Titolo della partecipato incontro, “Dolore innocente, enigma o mistero?”.
Il saluto è affidato a don Enzo Barbante, presidente da pochi mesi della “Fondazione Don Carlo Gnocchi” che parla di un percorso, nel suo incarico, «particolarmente impegnativo ma stimolante». Modera il dibattito, il direttore del quotidiano “Avvenire”, Marco Tarquinio che sottolinea, appunto, il “tempo dell’ascolto” che tutti dobbiamo vivere. «Questa sera aspetto un contributo in termini di orientamento e di sostegno, non posso dire di no quando sono coloro che si occupano di don Gnocchi a chiamarmi in causa», dice.
Si parte dalla morte di Dj Fabo. «La questione di cronaca è cosa che addolora ognuno di noi e che ho cercato di assimilare in tutti gli aspetti, anche quelli che non condivido, nella preghiera, tuttavia credo che il volume preziosissimo di don Gnocchi abbia al suo interno delle risposte. Leggendo per la terza volta il testamento le Beato, mi sono reso conto che bisogna inserirsi nel nucleo della visione di questo grandissimo educatore alla carità», dice subito l’Arcivescovo che legge alcuni brevi stralci del saggio: “Ogni bimbo che soffre è, dunque, come una piccola reliquia preziosa della redenzione cristiana che si attua nel tempo” .
«La modalità con cui don Carlo declina la relazione tra il peccato, il dolore, la morte e l’espiazione è una premessa alla quale tengo molto, anche se d’allora molta strada è stata fatta nella teologia».
Il riferimento è direttamente al pensiero di don Carlo (pag. 17 della pubblicazione) che scriveva: “Le maggiori difficoltà contro il dolore e contro la sua attribuzione, nascono da una concezione esclusivamente individualistica e punitiva del dolore stesso, in quanto si crede che nell’uomo la sofferenza sia un affare del tutto personale e una espiazione rigorosamente commisurata alle colpe individuali. Nulla di più falso nella concezione cristiana della realtà».
Osserva, allora, il Cardinale: «Neanche un fatto estremamente personale, come essere feriti nel proprio corpo, è un fenomeno soltanto personale soprattutto oggi, perché denuncia una situazione che si va aggravando in questo cambiamento di epoca: la tentazione di un individualismo narcisista che è una sorta, ormai, di autismo spirituale. Così, si perde il senso della umanità compiuta, dell’appartenenza alla famiglia umana e, per i cristiani, della comunione ecclesiale. La civiltà non può fondarsi sullo scarto e la dignità dell’io non può esaurirsi nella sua salute. Siamo tutti corresponsabili del mondo intero, dice, infatti, Gnocchi secondo quella misteriosa legge che rende gli uomini consorti, perché abbiamo, appunto, la stessa sorte».
Ancora la citazione è dal Beato, nel suo saggio, quando nota che il “puro tesoro della sofferenza va recuperato per farne dono al Cristo e alla Chiesa”. Il richiamo è anche alla visione dell’uomo inteso nella sua tragica bestialità, durante la ritirata di Russia quando su 68.000 Alpini ne tornarono a casa solo 12.000. Eppure anche su quelle Tradotte gelide e abitate dalla fame, dai pidocchi e dalle ferite del corpo e dell’anima, Gnocchi scorse l’uomo. Un insegnamento e una speranza che non perde di attualità: «Questa Pedagogia insegna che non bisogna tenere il dolore per sé, occorre farne dono agli altri».
Insomma occorre educarsi ed educare, non a caso, nel 1937, don Carlo aveva scritto il suo “Educazione del cuore”. Sottolinea il Cardinale: «La vita ci è stata data: la sua sacralità viene dall’impossibilità di autogenerarsi e, allora, dobbiamo rispondere a questa esistenza donata con il dono gratuito di noi stessi. Questa è la prospettiva che ci ha insegnato don Gnocchi. Non dobbiamo cercare una spiegazione teorica alla sofferenza, ma una presenza, quella del Signore. Il grande problema del nostro tempo è “rompere” con il narcisismo, prendendosi cura dell’altro che non è soltanto operare l’atto clinico, ma l’accompagnare nella grande casa dalle porte aperte che è la Trinità.
Parole su cui non è completamente concorde Natoli, docente di Filosofia Teoretica nell’Università Milano-Bicocca e amico di lunga data dell’Arcivescovo.
«L’esperienza del dolore lascia senza parole e ha due modalità di espressione, il grido e il silenzio, quando, in entrambi i casi non vi è la parola. Il dolore isola, stacca dagli altri, inchioda e produce una separazione: la perdita della parola descrive questa esperienza. Ma bisogna fare una distinzione tra il dolore come “danno” e quello come “senso”. Il dolore è universale come danno, ma diverso a secondo della cultura e dell’appartenenza. Il dolore separa ma cerchiamo una voce che ce ne “tiri fuori”. Rispetto a ciò che la pedagogia della sofferenza insegna, ci può essere una forte affinità rappresentato da ciò che si può chiamare “il linguaggio della pietà”. Il dolore c’è, è un fatto e bisogna affrontarlo, ma gli uomini non possono farlo da soli, per la nostra comune finitudine: Come non si nasce da soli, non si vive soli e, quindi, anche nel dolore – che è racconto di morte – , bisogna essere sostenuti e sostenersi in un legame di relazione».
Una via è, certo, in tale vicinanza umana, la compassione, ma in un’accezione diversa da quella corrente: «La dimensione profonda del compatire è dare all’altro l’idea che lui sia importante per me, perché sono io per primo ad aver bisogno di lui. Questo vuole dire relazione. Sono cose drammatiche, difficili da spiegare, perché spesso si cade nel sentimentale», riconosce Natoli. «Eppure, quando un atteggiamento vero di relazione c’è, l’altro può trovare un motivo di esistere e di durare nella vita. La differenza è tra il dolore ineliminabile, che ci viene dalla natura, e quello eliminabile che si infliggono volontariamente figli uomini: su quest’ultimo possiamo sempre agire».
Infine, conclude l’Arcivescovo: «Il rispetto è per ogni posizione, ma cosa mettiamo al posto di Dio? L’evento di Gesù Cristo e l’offerta della sua vita scelta del tutto liberamente portando il peso del nostro peccato, significa guardare a Lui».
È questo che fa la differenza, pur nella condivisa scelta – sia che si creda o meno – di avere cura dell’altro nella sofferenza.