Il Cardinale, presenti migliaia di fedeli, ha guidato la terza Via Crucis, intitolata “L’amore crocifisso”. Forte e accorato l’invito a guardare al sacrificio di Gesù come immagine di ogni sofferenza umana
di Annamaria BRACCINI
L’amore crocifisso, che resta tra i chiodi e il legno della croce, perché l’umanità tutta possa scoprire la bellezza e la dolcezza di essere schiodata dal male, accogliendo il dono della sua misericordia. È l’immagine – anzi la «questione di chiodi», suggestivamente evocata dall’ottocentesco antello appartenente della vetrata 19 della Cattedrale – che attraversa come un filo rosso, la terza Via Crucis in Duomo in cui migliaia di fedeli con il cardinale Scola, seguono il cammino dalla VIII alla XI Stazione. Via dolorosa che porta tra i canti (eseguiti al meglio dal “Coro da Camera di Varese”), i silenzi meditativi, la Parola di Dio e le testimonianze, alla riflessione su quel corpo inerme inchiodato, immagine di ogni morte e male. «Forse, quando si guarda alla morte di un figlio, quando siamo immersi nelle tenebre della prigionia del nostro male ingiustificabile e acuto o per un momento di barlume emotivo, quando assistiamo a stragi, uccisioni guerre, ma forse neppure in questi casi, arriviamo a capire in profondità cosa sia che l’Amore, con la maiuscola, è crocifisso. Forse questo nostro cuore confuso e aggrovigliato si lascia toccare un po’ dai chiodi», scandisce, aprendo la sua omelia, l’Arcivescovo. «Normalmente nella vita quotidiana, nei nostri rapporti affettivi, familiari, accogliendo chi ha sbagliato, siamo disposti a coniugare la parola amore con il Crocifisso, traducendola con la parola sacrificio e prova? Cosa narra di amore il nostro quotidiano? Come il nostro mondo di ricchezza ci fa “ragionar d’amore”?», si domanda ancora il Cardinale.
Eppure, è appunto in una contemporaneità nella quale l’amore «è ridotto a una ricerca sgangherata del piacere, anzi della sequenza dei piaceri», che la croce si fa richiamo nel «suo essere parte della realtà testarda, che si impone, se non altro per i tanti anticipi di morte che ci toccano e la caratterizzano».
L’invito per tutti – sono presenti i fedeli delle Zone di Varese e di Lecco e gli aderenti al Cammino Neocatecumenale, Agesci, Rinascita Cristiana e Comunità di Vita Cristiana – è a rileggere le parole del filosofo Kierkegaard, appena risuonate tra le navate. “Tu non ti lascerai ingannare, tu penserai che, se ci si mette sul serio davanti alla croce, bisogna farlo nella situazione della contemporaneità”.
«Se per noi Cristo resta qualcosa del passato al massimo commuove, ma non salva. Solo chi mi è contemporaneo mi può salvare e, dunque, dobbiamo pensare che noi stessi siamo contemporanei a Lui», spiega Scola.
«Strappiamoci dal groviglio del nostro cuore, dalla confusione della nostra mente, dalle false sicurezze del nostro pensare e mettiamoci realmente di fronte al Crocifisso eucaristicamente contemporaneo, presente qui e ora per la potenza dello Spirito che è sopra di noi, tra e in noi. Che il Crocifisso inchiodato alla croce, “chiuso vivo nella fossa”, ci commuova come dice il Libro delle Lamentazioni».
Una richiesta che si fa invocazione perché il Signore «ci liberi dall’inganno dell’autosufficienza. Ogni circostanza, che è prova, deve essere vissuta come una frattura che lascerà entrare la liberazione in noi». Il pensiero è ai grandi santi e beati come Charles de Foucauld «per lasciarci educare dai sentimenti di Cristo». Infatti, «le ferite che lascia la sofferenza arrivano da sole e non si rimarginano: per questo bisogna lasciarle fecondare dall’ingresso del Signore nel nostro cuore. Dobbiamo accettare che nella nostra finitudine passi il sacrificio e che, lasciandoci abbracciare dalle braccia spalancate del Crocifisso, ritorni fecondo. Guardiamo all’Amore crocifisso in cui la ferita che continua a suppurare genera liberazione, rinnovando in profondità e fino in fondo il nostro cuore».
Come non ricordare, in un contesto simile, le quattro Suore Missionarie della Carità che in questi giorni, ad Aden nello Yemen, «continuando nel loro lavoro di offerta e di dedizione quotidiana hanno incontrato la morte violenta, mentre, con amore delicato, condividevano la sofferenza dei diversamente abili e anziani»?, si chiede l’Arcivescovo che cita le parole pronunciate, all’Angelus di domenica scorsa, dal Papa.
«Questi sono i martiri di oggi, non sono copertine dei giornali, non sono notizie, se ho visto bene, dai grandi giornali e dalle televisioni sono sparite rapidamente. L’uomo di oggi volge spesso lo sguardo dall’altra parte, ha così paura di soffrire che fa finta di non vedere. Il caso serio dell’essere cristiani è il martirio. L’amore del Crocifisso ci liberi dalla globalizzazione dell’indifferenza a cui non importa nulla».
Da qui la preghiera: «O Gesù, amore crocifisso, facci non restare spettatori della tua Passione, aiutaci a non sottrarci a nessuna salutare messa alla prova della nostra esistenza, a non aver paura di soffrire per imparare ad amare e rendici strumenti del Tuo amore per ogni uomo, così che possiamo vedere l’alba del Regno di Dio già su questa terra, e cavare da lì, fede, speranza e carità, cioè prospettiva di pienezza, certezza di Paradiso e, quindi, speranza affidabile».
Infine, un ultimo richiamo a vivere, nel tempo che ci separa dalla Pasqua, il Sacramento della Riconciliazione, a compiere opere di misericordia spirituale e corporale, a passare la Porta Santa. «Non dimentichiamo, nella prospettiva pasquale, coloro che sono nel bisogno, che sono rimasti soli, che dormono per strada, cerchiamo occasioni di ospitalità».