La Visita pastorale dell’Arcivescovo ha fatto tappa a Rho. Ai fedeli riuniti nella Prepositura di San Vittore, il Cardinale ha indicato la necessità di farsi tramite verso gli altri «perché si accorgano che Cristo è un compagno di cammino»

di Annamaria BRACCINI

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Oltre 125 mila persone, 20 parrocchie, quattro Comunità pastorali, 37 sacerdoti, quattro diaconi permanenti, una realtà importante come quella dei Padri Oblati, molte religiose e ben 513 catechisti. È il Decanato di Rho, Zona pastorale IV, che il cardinale Scola incontra per la sua ventesima Vista pastorale. La chiesa prepositurale di San Vittore si riempie in fretta di gente, delle autorità civili e militari, dei sacerdoti e degli Oblati – c’è anche il vescovo Renato Corti, che qui risiede -, prima dell’arrivo dell’Arcivescovo, accompagnato dal vicario di Zona monsignor Giampaolo Citterio e dal decano don Giuseppe Vegezzi, che dice: «L’accogliamo con gioia in questo nostro Decanato di lunga tradizione cristiana che, tuttavia, possiamo dire sia in movimento, ciascuno portando le proprie fatiche ed esperienze. Siamo convinti che dobbiamo essere fautori di un nuovo umanesimo. Chiediamo una parola di incoraggiamento e di freschezza per il nostro cuore. Chiediamo, con tanto affetto, di educarci davvero al pensiero e ai sentimenti di Cristo».

«Vedervi così numerosi e disponibili non solo è un ristoro, ma una consolazione per il Vescovo», risponde sorridendo il Cardinale che subito si rivolge direttamente ai fedeli: «Non siamo qui per una riunione, perché il cristianesimo non è partito o un’istituzione sociale, ma è l’avvenimento della presenza di Gesù, vero Dio e vero uomo che, attraverso i Sacramenti illuminati dalla Parola di Dio, resta contemporaneo a noi e per questo ci salva. La nostra è un’assemblea ecclesiale che prolunga il gesto eucaristico della domenica, in cui il Signore bussa alla porta della libertà di qualunque uomo e donna e ci chiede di entrare. Ma se – come diceva Sant’Ambrogio – non apriamo, Lui non entrerà». Per questo «ogni nostra assemblea deve avere quello “stile eucaristico” che offre una libertà profonda e sprona a edificare una comunità ecclesiale che dia più speranza all’uomo». Come a dire che non si è in un «luogo di dibattito, ma in uno spazio in cui realizzare la comunione in Cristo, attraverso la nuova parentela che il Suo sacrificio ha creato e che dilata la parentela della carne e del sangue».

Proprio per questo si è scelto di fare una Visita pastorale impostata su tre momenti: l’assemblea ecclesiale con l’Arcivescovo; la capillarizzazione, «entrando i Vicari di Zona e i Decani in ogni realtà del territorio e dialogando, a partire dal quotidiano, sugli aspetti urgenti di ogni singola presenza»; la terza parte, «che identificherà il passo che la Comunità ecclesiale dovrà compiere». Una Visita non a caso definita “feriale”, «proprio perchè siamo consapevoli e abbiamo rispetto per i ritmi del lavoro delle persone di oggi, profondamente mutati rispetto al passato. D’altra parte non possiamo avere una Chiesa fatta solo di preadolescenti e di pensionati…».

Se questa è l’articolazione, la ragione di fondo rimane quel fossato tra fede e vita, già identificato nel 1934 dal giovane don Montini e che oggi è drammatico, «perché la fede non è più un criterio di valutazione della realtà». Chiara, dunque, anche la mèta da raggiungere: «Superare questa divisione che rende la fede, anche per gli stessi cristiani, qualcosa di insignificante». Da qui, il primo auspicio di Scola: «Passare da un cristianesimo “per convenzione” a uno “per convinzione”, da vivere attraverso con una ricerca di senso personale e comunitaria».

Come quella che la comunità dei fedeli di Rho, dalla forte e antica tradizione religiosa, esprime attraverso le sue domande, interrogandosi appunto sul passaggio dalla “convenzione” alla “convinzione”, sulla questione sempre aperta dell’oratorio e sullo «scandalo dell’incapacità alla collaborazione e condivisione».

«Fino alla conclusione degli anni Settanta, era facile fare riferimento alla tradizione cristiana come aiuto a vivere bene la vita – riflette Scola -. Ma, oggi partire dalla verifica di questa convenienza non è più un fatto immediato, in una società in cui visioni diverse si incontrano e si scontrano e dove la partecipazione religiosa alla vita della Chiesa è mutata, venendo meno certe tradizioni popolari». Che fare allora? Passare, appunto, alla convinzione della fede, muovendo «dall’apprendimento dell’amore di Gesù, che fa vedere sempre più chiaro il Suo volto». Cogliere, cioè, «la bellezza del rapporto personale con Cristo, che crea la comunione tra noi e che, quindi, si può vivere solo nella comunità». Questa la strada per superare «un’idea meccanica delle tradizioni, ritornando al cuore della Tradizione con la “T” maiuscola, perché il fatto cristiano non è, prima di tutto, una dottrina, né una morale, ma incontro vivo che ci fa capaci di comunione».

E allora è il Cardinale che, a sua volta, rivolge una domanda a se stesso e a chi lo sta ascoltando: «Chiediamoci che peso ha Gesù nel nostro mondo quotidiano. È il centro affettivo della mia, della tua esistenza? Perché se lo è, cambia tutto: il modo di gestire i beni, di affrontare la morte e il presente, di vivere la famiglia, gli affetti e il lavoro». È in questo contesto che emerge con forza quella dimensione culturale della fede, più volte identificata come il dato mancante nella Chiesa attuale, anche ambrosiana.  Dato per cui, per esempio, l’oratorio, «che non può essere solo un luogo di gioco per i bambini, deve divenire spazio di conoscenza reciproca, di ritrovo e di riposo, magari domenicale, in cui parlare e confrontarsi fra genitori, educatori e ragazzi in semplicità». «Più che mai adesso dobbiamo avere molta libertà, anche perché il “campanile” è ancora un riferimento, ma non basta più. Occorre un rapporto tra la parrocchia e gli ambienti diversi con una fondamentale pluralità della forme educative».

Una prospettiva cruciale anche per rispondere alle divisioni che facilmente si creano nelle Comunità: «Dobbiamo accettarci e, come dice San Paolo, “sopportarci” a vicenda. Ma se il rapporto base con il Signore, il “per Chi” si fanno le cose non è esplicito e chiaro, sarà difficile ripartire ogni mattina, sarà più alta la conflittualità, e la potenza salvifica della croce si trasformerà in potere. Facciamo un segno di croce, una preghiera a ogni risveglio – a conclusione della serata l’Arcivescovo chiederà a tutti di vivere il Giubileo, invitando amici e conoscenti – e non spaventiamoci, perdonandoci a vicenda».

Poi, ancora domande: «Come si coniugano misericordia e verità?», «Esiste il rischio che la liturgia si riduca a sterile rituale? Come rimettere al centro la Parola di Dio?», «Quali stimoli dovrebbero aiutare i cristiani nella scelta politica, anche in vista delle prossime elezioni amministrative?». «La misericordia è ciò che rende la giustizia più giusta, secondo quanto sottolinea il Papa – risponde Scola -. Il problema, semmai, è come rispettare la verità e la giustizia essendo misericordiosi, anche perché, umanamente, il rapporto giustizia-misericordia è molto complesso. Si tratta di fare come Gesù che, assumendo tutti i nostri peccati, è stato inchiodato sul palo della croce per chiedere alla misericordia del Padre di “riprenderci”. Questa è l’esperienza dell’amore. Per quanto un uomo possa essersi inabissato nel male, c’è sempre il movimento misericordioso di Gesù che ci attira a sé, portandoci al volto del Padre. In tale senso, la verità non è anzitutto un insieme di formule o precetti, ma è il dono e la grazia dell’incontro il Signore. Anche per noi essere misericordiosi è un farsi tramite verso l’altro perché si accorga che Cristo è un compagno di cammino». Per questo, suggerisce il Cardinale, «senza togliere rispetto a nessuno, famiglie ferite, separati, omosessuali, dobbiamo dire cosa sono per noi la famiglia e l’amore vero che presuppone la fedeltà».

Qui, dove la verità – la testimonianza – deve essere la comunicazione in prima persona di Cristo, la Parola di Dio si fa criterio di valutazione: «Guai a cadere nella banalizzazione della liturgia. Mai dimenticare la Parola di Dio, in cui, come indica il Concilio, è Cristo stesso che ci parla. Riprendiamo, per esempio, la bella tradizione dell’adorazione, su cui gli americani del sud e del nord “ci bagnano il naso”». Insomma, il modo migliore per realizzare questa attiva partecipazione all’«arte della liturgia» è rispettare, con buon senso, la tradizione: «Ai preti dico: né troppi pizzi e merletti, né scarpe da tennis sbrecciate sull’altare».

Un’ultima parola è riservata all’impegno nella politica: «In una società plurale, dove non si può ammettere che l’inclinazione di qualcuno diventi legge per tutti, i cristiani devono dare il loro contributo in prima persona. Oggi il cattolicesimo politico sembra finito, i partiti sono in grave crisi, ma la Cosa pubblica va comunque governata: servono donne e uomini capaci di mettersi in gioco con una visione cristiana della vita. È necessario ritrovare un atteggiamento di gratuità, come avveniva fino agli anni Settanta, sia nel movimento operaio, sia nel mondo cattolico, prima che emergesse l’ambivalenza della politica».

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