Nella ventinovesima tappa della sua Visita pastorale feriale l’Arcivescovo ha dialogato con i fedeli del Decanato di Besozzo: «Siate aperti al cambiamento»

di Annamaria BRACCINI

visita pastorale besozzo

«Non siamo un’associazione politica o un partito e, nel nostro lavoro comunitario, siamo un’assemblea ecclesiale che ha il suo modello nell’assemblea liturgica. Come a Messa iniziamo con il riconoscimento della nostra fragilità e confessando il nostro peccato, poi ascoltando la Parola di Dio in cui è Gesù che ci parla e, infine, mangiando il suo corpo, che ci rende fratelli nella sua parentela, dobbiamo fare anche qui. Dunque, occorre che quando i cristiani si incontrano, non lascino alle spalle l’Eucaristia della domenica, ma la proseguano nel modo in cui vivono il quotidiano. Vorrei che uno dei frutti della Visita pastorale fosse questo stile di assemblea, perché mi pare che tanta fatica a capire la Comunità pastorale venga proprio dalla mancanza di tale stile».

Lo dice il cardinale Scola in visita il grande Decanato di Besozzo – 27 parrocchie, 56 mila abitanti -, arrivando a Gavirate dove i fedeli sono riuniti in gran numero presso l’Auditorium e collegati anche da due aule delle scuole comunali. Accanto all’Arcivescovo siedono monsignor Franco Agnesi, vescovo ausiliare e vicario episcopale di Zona, monsignor Emilio Patriarca, vescovo emerito di Monze (Zambia), residente nella parrocchia di Comerio, il decano don Carlo Manfredi e il prevosto di Gavirate don Maurizio Cantù.

«Proprio perché non si riesce a portare nella vita di ogni giorno la fede bisogna educarsi al pensiero di Cristo», spiega ancora Scola, che identifica l’articolazione della Vista pastorale «aperta dall’assemblea col Vescovo, che prosegue lavorando su un problema acuto, per giungere, sotto la guida del Vicario generale, a identificare il passo da compiere». E tutto per educarsi a superare quel fossato tra fede e vita che ha portato a un indebolimento dell’esperienza della comunità stessa: «Siamo diventati una minoranza sociologica, tanto che la grande maggioranza dei battezzati non partecipa più alla vita ecclesiale e ha perso la strada di casa», dice il Cardinale rispondendo alle prime due domande, non emerse di frequente nelle altre Visite e relative alla vita in comune del clero e alla presenza sul territorio della Chiesa evangelica “Vita Nuova”: «Dobbiamo situare le questioni in un orizzonte più ampio, accettando che Cristo è contemporaneo a ogni uomo di ogni tempo e di ogni cultura perché Egli si è reso tale nell’Eucaristia, il cui esito è la Chiesa. Non si può pensare l’Eucaristia senza la Chiesa, che non dobbiamo incapsulare in una pratica di pietà come fosse un fatto individuale. Senza la comunità, il fedele, il Vescovo, il Papa non sono niente. Quindi, la vita comune tra i sacerdoti e il coinvolgimento comunitario dei laici deve entrare nella normalità e non è solo auspicabile, ma da incoraggiare. Tuttavia, per ciò che ho visto nella mia esperienza, penso che i preti debbano scegliere la vita comune concreta, come scelta personale nella libertà». E su Pentecostali e Avventisti, «che stanno avendo una impressionate crescita», l’Arcivescovo riflette: «Gli Evangelici sono diventati quasi settecento milioni nel mondo, con una forza missionaria che fa leva sull’energia di convinzione, mentre proprio su questo oggi, anche in Italia, le Chiese stanno vivendo la loro fatica». La questione è sempre quella di passare dalla convenzione alla convinzione: «Anche se si nota una partecipazione dei fedeli più attiva che nel passato – anzi actuosa, come dice il Concilio -, siamo ancora su una sorta di “bagnasciuga” che può sfociare o in una risacca che riporta indietro o, se Gesù ti è caro, nell’entusiasmo che prende e diviene contagioso, secondo il suo significato etimologico, “essere in Dio”. Il punto è ritrovare slancio e desiderio». Da qui la risposta: «Testimoniare l’entusiasmo che può nascere in noi se ci spalanchiamo al dono straordinario di Gesù e dialogare con questi fratelli nella verità e nella chiarezza».

Poi due domande sulla famiglia. «È un aspetto a cui personalmente attribuisco molto peso», dice il Cardinale, già presidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, presente in undici Paesi del mondo: «Sono persuaso che la famiglia sia fondamentale per il passaggio dalla convenzione alla convinzione. Se non prendiamo sul serio la visione cristiana della famiglia, visione umanissima, sarà molto improbabile invertire il trend di allontanamento dei giovani. Non a caso, il tema della famiglia come soggetto, all’interno del quale si possono comprendere anche tanti problemi attuali, è il dato più importante emerso dai due recenti Sinodi».

Anche qui, allora, si tratta di affrontare con molta semplicità la vita quotidiana con i sentimenti di Gesù: «È la scoperta dell’acqua calda, ma se lo facciamo avverrà realmente una rivoluzione copernicana e, finalmente, la figura del laico prenderà tutto il suo peso». La strada indicata è quella «molto semplice ed elementare» dell’incontrarsi tra famiglie, magari con la presenza di un sacerdote (come lo stesso Scola ha già fatto a Milano e a Varese-Masnago), affrontando i problemi concreti: «Perché i lontani non esistono, in quanto non esiste nessuno che non abbia a che fare con l’esperienza affettiva. Il problema è semmai il “per sempre” dell’amore che bisogna spiegare ai giovani in tutta la sua decisività e bellezza. Si deve scegliere il dovere della fedeltà, al di là di ogni nostra fragilità, per la presenza del Tu del Signore in ogni relazione».

Infine, l’immigrazione, su cui la risposta dell’Arcivescovo è chiarissima: «La storia va avanti per processi, per un insieme di fenomeni e fattori che si intrecciano tra di loro e che, se sono complessi o non si riescono a risolvere, da emergenza diventano strutturali. Così è per il problema della migrazione, per cui occorreranno decenni. Tuttavia, i processi si possono e si devono orientare, nella consapevolezza dei soggetti coinvolti che sono sostanzialmente tre: la Chiesa che ha il dovere del primo intervento (il “buon samaritano” che si fa prossimo); la politica e le istituzioni a cui spetta elaborare una politica organica e ordinata (basti pensare alla impotenza dell’Europa); la società civile, che deve elaborare educazione – l’esempio sono gli oratori e le scuole dove crescono insieme ragazzini di tante etnie diverse – e integrazione a livello di base».

L’ultima domanda è su papa Francesco: la sua testimonianza «gioiosa e coerente» richiede una riforma delle «realtà ecclesiali e dei suoi pastori»? «Tutto quello che abbiamo detto è documentato dal Papa e si chiama testimonianza, grande categoria cristiana ridotta ora purtroppo al semplice buon esempio. La testimonianza è un modo di conoscere la realtà in modo adeguato e di comunicare così la verità nel senso della cultura cristiana, come esperienza di popolo. La riforma della Chiesa e del clero è una strada che dobbiamo percorrere, e, come Chiesa ambrosiana, abbiamo già iniziato attraverso la Formazione permanente del Clero e la Comunità educante per l’Iniziazione. Il primo atto culturale è sempre il porsi del soggetto. Usciamo dalla logica del “qui si è sempre fatto cosi”. Cambiare è bello».

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