In Curia il rito a porte chiuse, presieduto dall'Arcivescovo, di immissione di tre parroci e di due responsabili di Comunità pastorali. Il Cardinale: «Noi ci muoviamo perché un Altro ci manda»
di Annamaria BRACCINI
«Viviamo questo momento nel suo profondo significato pastorale e in quello giuridico-formale che lo inserisce nella vita della Chiesa». Appena giunto nella Cappella arcivescovile, il cardinale Scola saluta così i tre nuovi parroci e i due nuovi responsabili di Comunità pastorali che, con i collaboratori nel Ministero, vengono immessi nei loro rispettivi incarichi. Il rito si compie durante la tradizionale celebrazione della Parola, nel giorno della solennità del compatrono della Chiesa ambrosiana, San Carlo Borromeo.
Ai nuovi parroci si rivolge direttamente la riflessione del Cardinale: «L’orazione di apertura per questo gesto che, volutamente, è di carattere riservato e non pubblico, ci parla della disposizione del cuore e della mente che occorre avere nel momento in cui assumete i nuovi compiti e soprattutto del criterio con cui esercitarli». Un’orazione che richiama come i ministri siano chiamatati a servire e non a essere serviti, a essere generosi nell’impegno pastorale, fedeli e vigilanti nella preghiera, lieti e premurosi nel servizio della comunità cristiana: «Questi sono atteggiamenti che già vivete, ma devono essere recuperati nell’offerta della vita lungo ogni giornata attraverso le circostanze e i rapporti in cui rinnovare l’atteggiamento del servizio».
Il riferimento è all’essere «lieti e premurosi», «espressione che mi ha sempre colpito – osserva Scola -. Che la premura accurata possa scaturire dalla letizia è comprensibile con facilità. Ma come essere lieti se non lo si è? Questo mi pare un aspetto decisivo per noi come ministri e in quanti sono attori della missione ecclesiale, come Pastori, persone che devono il più possibile incentivare questa attitudine». La strada per essere lieti, anche nel dolore e nelle prove, si ritrova, d’altra parte, nella lettura dal profeta Geremia – utilizzata, non a caso, per questa tipologia di celebrazione della Parola -, «che aiuta a non mentire con noi stessi, anche nelle sofferenze e quando si avanza con l‘età».
L’idea è quella di essere presi a servizio «in quanto noi ci muoviamo perché un Altro ci manda». «Essere presi a servizio», secondo l’espressione di Hans Urs Von Balthasar, più che «essere a servizio», che ben delinea il contenuto della “premura” descritto dal brano di Giovanni 10, «a cui sono molto affezionato e sul quale, quando ero Patriarca di Venezia, ho potuto le leggere tanti appunti di San Giovanni XXIII. Su questo rapporto fondamentale tra Padre e Pastore, il Papa basò la sua idea di pastoralità, che non è la traduzione pragmatica della nostra fede o il riferimento alla dottrina, ma è la collocazione del nostro essere ministri in un contesto storico- salvifico. In tale prospettiva si situa la nostra forza pastorale, in una paternità da vivere, come sacerdoti – suggerisce l’Arcivescovo -, nella figliolanza di Dio e in fraternità con gli altri». Infatti, il presbiterio si attua «nel rapporto con i fratelli chiamati allo stesso ministero, con i fedeli che ci sono affidati, con tutti i battezzati, anche quelli che hanno dimenticato il battesimo, con il Vescovo e i suoi collaboratori, in quel respiro sinodale che papa Francesco ha richiamato celebrando il cinquantesimo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi».
E ricorda, il Cardinale, la nuova modalità della Visita pastorale in Diocesi, meno solenne, “feriale”, che caratterizzerà il cammino della nostra Chiesa: «Questa Visita si innesta nel grande Giubileo della Misericordia e troverà il suo culmine nel dono della visita del Santo Padre tra noi, il 7 maggio; inoltre, avranno luogo i “Dialoghi di vita buona”, proseguiremo nella riflessione sulla partecipazione della Chiesa all’Expo. Momenti comuni che si aggiungono ai gesti e agli appuntamenti tradizionali, come la prossima predicazione d’Avvento in Duomo». Tutto per sottolineare il contributo alla costruzione della comunità ecclesiale e della società, per valorizzare la famiglia quale soggetto di evangelizzazione, per vivere, come sacerdoti, «inserendoci nel nuovo stile di formazione permanente con i suoi esercizi di comunione e un impegno che muove dal “basso”, attraverso ciò che ci accade nella vita quotidiana».
Poi, dopo la Professione di fede, il giuramento di fedeltà nell’assumere l’ufficio da esercitare a nome della Chiesa – nel quale i parroci e responsabili di Comunità pastorali pongono le mani sul Vangelo, invocando l’aiuto del Signore – e la lettura del Decreto di immissione in possesso. Infine il momento condiviso con l’Arcivescovo, vissuto in un clima conviviale e affettuoso.