Diverse centinaia di persone hanno preso parte, nella basilica dei Santi Martiri Nereo e Achilleo, all’Assemblea ecclesiale che ha aperto la Visita pastorale per i Decanati milanesi di Lambrate e Città Studi. L’Arcivescovo: «L’integrazione in ogni campo richiede pazienza»
di Annamaria BRACCINI
La grande chiesa piena di gente, cosa non scontata di sera a Milano che significa l’importanza di un’assemblea ecclesiale nella quale «la figura e la parola del Vescovo ci costituiscono Chiesa». Monsignor Carlo Faccendini, vicario episcopale per la Zona pastorale 1-Milano, esprime così l’attesa e la gioia delle centinaia di persone, appartenenti ai Decanati “Lambrate” e “Città Studi”, che, nella parrocchia dei Santi Martiri Nereo e Achilleo, si riuniscono con i rispettivi decani, don Luigi Badi e don Carlo Doneda, per incontrare l’Arcivescovo in occasione dell’avvio della Visita Pastorale. Un momento “forte” non solo per le Comunità cristiane, ma anche per il Cardinale, come spiega lui stesso all’inizio del suo breve intervento.
Convocare, guidare, incoraggiare e consolare
I 4 verbi che, nel Direttorio dei Vescovi, definiscono il dovere episcopale della Visita (convocare, guidare, incoraggiare e consolare) delineano lo scopo generale «di un gesto che – dice, infatti, il Cardinale – mi fa gustare veramente l’amore che il Signore ha per me attraverso il popolo di Dio che mi è stato affidato. Vorrei che questa consolazione fosse anche la vostra».
Poi, l’obiettivo particolare della Visita, identificato nell’educarsi al pensiero di Cristo, perché «sulle cose della vita, in cui Gesù è venuto ad accompagnarci, ci perdiamo» rimanendo vittime dell’opinione dominante, dei mass media e della confusione che investe il mondo e anche noi».
Una Visita, insomma, «che vuole aiutare ciascuno a rendere più stretto il fossato tra fede e vita», conclude, richiamando il dono grande del Papa che «viene a Milano per confermarci nella fede».
Giovani, Comunità pastorali e cammini condivisi
Cominciano le domande: Marco si interroga «sull’oratorio come luogo per appassionare alla fede»; Santa, «su come individuare cammini trasversali dove tutti possano condividere tale fede» e Carlo chiede «come valorizzare la Comunità pastorale, sentendosi sempre più una grande famiglia, senza essere troppo legati al territorio».
Dalla situazione di difficoltà che vive l’Europa, dalle tante forme di esclusione del mondo opulento occidentale e dai problemi della nostra società come il lavoro che manca, specie per i giovani – «è la prima generazione che sta peggio della precedente» –, prende avvio la risposta del Cardinale. Il verbo di partenza è “appassionarsi”.
«Il Cristianesimo trova la sua forza nella bellezza che è lo splendore della verità e, per questo, appassiona essendo attento a tutta la realtà. L’esperienza cristiana è bella e attrattiva nella testimonianza appassionata del bene che è Gesù per noi». Ma, «il rischio, oggi, è che si abbassi il livello della proposta». Tuttavia, non bisogna spaventarsi, perché non è la fatica, che fa parte dell’esistenza, a essere contraria al fascino, all’attrazione e all’entusiasmo, ma la noia»
Occorre tornare alla radice della fede, all’incontro personale con Gesù nella Comunità cristiana, suggerisce Scola, rivolgendosi direttamente ai fedeli. «Se non aveste fatto questo incontro non saremmo qui e questo è l’aspetto radicale da cui può partire l’esperienza del popolo di Dio, in una comunità che è tale solo se è viva».
L’invito è a leggere il Vangelo, magari quello di Marco, e a ritornare con il pensiero al momento in cui una persona, una circostanza, un rapporto hanno riattualizzato il nostro battesimo. «Noi spesso dimentichiamo il fascino dell’incontro e veniamo fiaccati nella testimonianza, ma se lo manteniamo, Gesù diviene il centro affettivo, il motore dell’esistenza, al di là delle gioie e dei dolori di ciascuno».
Il riferimento è alle 7 Viae Crucis, nelle quali la reliquia del Santo chiodo verrà portata con la Croce di San Carlo, in ognuna delle Zone pastorali come occasione di conversione.
Il ruolo centrale della famiglia nella società e le famiglie ferite
Proseguono i quesiti dei laici: Giovanni dice: «di quali nuovi strumenti e modalità si può disporre per mettere in rete le famiglie in difficoltà tra loro e con realtà che possano aiutarle?»; Enrico, «come le famiglie possono essere ponte tra la Comunità cristiana e gli ambienti di vita?», ad esempio la scuola; Gianluca parla di «una pastorale familiare che sia inclusiva e non esclusiva. Si pensa agli anziani soli?».
La famiglia è la cellula originaria e fondamentale della società civile, chiesa domestica, come la definivano i Padri. «In ogni tipo di società è il nucleo originario, anche se la crisi in cui oggi sembra versare, con la scelta della maggioranza di giovani di convivere o la quantità delle famiglie ferite, sembra opporsi a tale definizione».
A essere in crisi, spiega il Cardinale, non è, però, la famiglia, ma la coppia, il rapporto tra uomo e donna, tanto che anche coloro che sono dello stesso sesso vogliono fare famiglia.
In questo senso, ogni nucleo, anche le famiglie ferite sono appartenenti alla Comunità cristiana, basti pensare all’Esortazione apostolica Familiaris Consortio che descrive come i separati e divorziati possono partecipare alla vita della Chiesa. «Bisogna accogliere, facendole sentire parte viva della Comunità: i Gruppi sono importanti, ma bisogna evitare di ghettizzare le situazioni, anche chi ha attrazione per lo stesso sesso».
Dunque, famiglie inclusive al loro interno e aperte a 360°. Da qui, «la grande importanza della Comunità educante che aiuta la famiglia a recuperare il senso della fede, anche per i piccoli. «Come è triste vedere bimbi che non sanno fare nemmeno il segno di croce». Richiama, l’Arcivescovo, la rilevanza dei nonni nella vita di oggi, non solo perché sono spesso necessari per i ritmi di vita e i bilanci familiari, ma anche da un punto di vista educativo. «Sono molto contento che un gruppo di persone abbia creato un’Associazione (www.nonniduepuntozero.eu) per riflettere sulla loro responsabilità. Non devono fare solo i baby sitters, ma, senza ovviamente sostituirsi ai genitori, educare perché i bambini imparano alcune cose più facilmente dai nonni, come il dolore, la sofferenza, l’importanza del lavoro, la serietà, il rispetto della dignità di tutti».
«Per educare dobbiamo superare la divisione tra la Chiesa e gli ambienti di vita che, oggi, incidono moltissimo. Occorre creare forme di un’unità diversa, valorizzando tutte le Associazioni e i Movimenti: la parrocchia non è più solo il “campanile”, ma fare unità effettiva con tutte le forme che sono nate, in forza dello Spirito santo, e sono state riconosciute dalla Chiesa come realtà cattoliche.
Diverse forme ecclesiali e integrazione tra i popoli
Infine, le ultime due domande: Elena fa riferimento all’integrazione, non sempre facile, con le Comunità straniere e Francesca si sofferma sulle diverse forme ecclesiali presenti sul territorio – Cl, Opus Dei, Rinnovamento nello Spirito – «e su quali possano essere i modi, momenti, i luoghi da privilegiare per crescere veramente insieme con diversi carismi».
«È un cammino lungo, ma che, nella nostra Diocesi, non solo è iniziato, ma ha fatto importanti passi avanti negli ultimi 15-20 anni. Lo Spirito suscita i carismi e bisogna che tutti coloro che appartengono a tali realtà si connettano, siano più che cordiali, compiano gesti».
Anche qui non mancano fatiche «frutto di uno situazione che, dal 1970 al ’90-’91, ha interessato anche la nostra Chiesa ambrosiana, trasformando in scontro ideologico ciò che avrebbe dovuto essere un crescere insieme tra fratelli. Ora la fase ideologica è finita e possiamo valorizzare al massimo il dono di ciascuno».
Insomma, relativamente all’integrazione, anche ecclesiale, è un problema di pazienza perché «il martirio non è solo quello del sangue, ma anche quello della pazienza». Ovvio che lo sia ancora di più per coloro che, pur cristiani (come i Filippini o i Cingalesi) provengono da mondi lontani e tradizioni diverse. Chiara la consegna finale dell’Arcivescovo: «Coloro che sono della prima generazione faticano molto a lasciare le Cappellanie: è la seconda generazione su cui dobbiamo lavorare. Le nostre identità culturali non si perdono se hanno il coraggio di giocarsi, perché l’identità è dinamica»..