Pedagogista e Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, riflette sulla proposta pastorale («la vera sapienza vuol dire cercare il senso di quello che viviamo e anche scoprire la nostra fragilità») e sottolinea l’importanza attribuita nel testo all’amicizia e alla condivisione
di Annamaria
BRACCINI
Come legge una pedagogista – già deputato – come Milena Santerini, docente presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica, l’appello al pensare insito nella proposta pastorale? Come un «richiamo a interpretare il segno dei tempi», osserva Santerini, che è anche Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo. «Il nostro Arcivescovo – aggiunge coglie il bisogno che abbiamo di una sapienza nel suo significato biblico, che non vuol dire sapere tutto o avere necessariamente cultura, ma cercare il senso di quello che viviamo in questo nostro tempo».
Tempo di pandemia…
Credo che sia molto importante tale sottolineatura, perché l’Arcivescovo parte da quello che abbiamo vissuto – da un’esperienza comune e unica, totale e planetaria, nella quale ci siamo confrontati con le domande fondanti sulla vita, sulla morte, sul futuro, il dolore, la malattia -, che non può andare sprecata.
Tra i percorsi di sapienza, l’Arcivescovo dedica, infatti, un capitolo alla sapienza del corpo. Come questo può aiutarci a uscire dal senso di scoraggiamento e di impotenza?
Oggi abbiamo un’esperienza del corpo che, qualche volta, è davvero patologica: il corpo dev’essere sano, bello – non ammettiamo che sia fragile -, esibito. Quando, poi, arriva un’esperienza come il Coronavirus, c’è il crollo: se si sta bene, è facile dimenticare il limite, ma la vera sapienza è appunto sapere, scoprire, capire, ricordarci della nostra fragilità. Mi hanno molto colpito le immagini che ha usato l’Arcivescovo a riguardo della città festosa, che però fallisce: una città umiliata. La stessa cosa la viviamo noi con il nostro corpo, che ha un limite e deve essere vissuto in comunione con quello degli altri. Da qui le bellissime pagine sulla condivisione e sull’amicizia.
Anche per il suo ruolo di Coordinatrice governativa per la lotta all’antisemitismo, ritiene che vi sia bisogno di un nuovo modo di dialogare e confrontarsi?
Certamente. Nella Proposta c’è la forza della denuncia dell’individualismo. Credo che questo sia il peccato più grande che possiamo fare e che la visione dell’Arcivescovo sia realistica, così come il grande valore da lui attribuito all’amicizia e alla condivisione. Dal mio punto di vista, ritengo che permanga un rischio grave: la tentazione di trovare, comunque, un capro espiatorio, un nemico: un giorno i cinesi, il successivo, è colpa dell’eterna congiura ebraica. Tuttavia, qualcosa di positivo c’è perché abbiamo capito di aver bisogno gli uni degli altri.
Parlando della Chiesa dalle genti, l’Arcivescovo chiede di comprendere la ricchezza di tradizioni cattoliche diverse, come pure di incontrarsi con chi non condivide la nostra fede, nella Milano «città pensosa» ricca di donne – cruciale l’apporto femminile – e uomini «autorizzati a pensare». È una sfida promettente?
Penso che il cosiddetto Sinodo minore sia stato fondamentale per Milano e rivoluzionario, direi, perché non propone solo un invito a integrare, ad ascoltare, ad accogliere, ma promuove l’idea che la Chiesa è già questa, fatta di genti di tutte le nazionalità. Abbiamo paura che le chiese si svuotino, che le persone si chiudano in casa, che si spezzi un legame fragile come quello della comunità, però c’è questa forza potente dello Spirito che ci fa stare insieme nella Chiesa in un modo, spero, sempre più libero.