Esemplare nella sua capacità di “sfumare” nell’ombra, è figura che rappresenta un monito ai tanti narcisisti di oggi
di Silvano
MACCHI
Rettore del Santuario arcivescovile di San Giuseppe, Milano
La vicinanza della solennità del Santo Patrono del Santuario arcivescovile di San Giuseppe, meta di tanti pellegrini devoti al santo e di visitatori della bellissima chiesa barocca, merita una riflessione che aiuti a entrare, con rinnovata profondità, nello spirito della festa di questo santo così anomalo e tuttavia così fondamentale per la Chiesa tutta.
Come è noto – lo registra la complessa elaborazione teologica del Vangelo di Matteo, in occasione della festa liturgica – Giuseppe, dopo la fuga in Egitto della Sacra Famiglia, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi» (Mt 1,22). Istruito poi da un angelo in sogno, su suo suggerimento, «si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: Sarà chiamato Nazoreo» (Mt 1,22-23). A Nazareth il Figlio di Dio, di Maria e di Giuseppe, condusse poi, per ben 30 anni, una vita nascosta. Dunque ritirata, periferica, in disparte, di tutti i componenti della Sacra Famiglia a Nazareth.
Sotto questo profilo credo che non ci sia titolo migliore e teologicamente più incisivo e preciso per San Giuseppe di quello di «Patrono della vita nascosta»; della vita nascosta sua, di Gesù e di tutti noi. Nascosto fu Giuseppe e – per molto tempo – nascosto fu anche il Figlio. Un nascondimento operoso, attivo, premuroso, che nel caso di Giuseppe consiste nel consentire al Figlio un ingresso “normale” nella vita comune e ordinaria di tutti i figli di Adamo. È dalla vita nascosta, modesta, ordinaria, che il Figlio apprende fatiche e speranze, dolori e gioie, affetti e lacerazioni, miserie e ricchezze, vita e morte, lavoro e festa; apprende insomma la conoscenza di Dio e degli uomini.
Molte sarebbero le declinazioni spirituali di questo accento così insistente nel delineare i tratti di San Giuseppe e dell’intera Sacra Famiglia. Tra le varie segnalo questa: imparare a sfumare – per così dire – nell’ombra. Seguire Giuseppe, e con Giuseppe il Figlio di Maria sulla strada del ritiro, del distacco da tutte quelle vie e pensieri che non sono le vie e i pensieri di Dio. Che è come dire «non cercare noi stessi», «non innalzarci al di sopra degli altri», pronti anche a sgomitare pur di arrivare, avere successo, conquistare la stima e l’ammirazione da parte degli altri; persino a costo di essere in tal modo fautori di tensioni, gelosie, litigi, recriminazioni, rancori, inquietudini; non avendo mai un minimo di pace interiore. Ciò che – ahimè – conta nel mondo contemporaneo è solo ed esclusivamente il sé (è il ritorno del nuovo e insieme vecchissimo mito/idolo di Narciso e rispettivamente di Prometeo), l’uomo autoriferito, autoripiegato, autoreferenziale – l’uomo “autistico” -, che risponde solo a sé ed è volto esclusivamente alla propria autorealizzazione e autoaffermazione.Anche nella vita ecclesiastica in generale, dove certo non mancano coloro che puntano solo alla carriera, a farsi largo e a esprimersi teologicamente e antropologicamente in forme «autistiche» (quanti teologi «autistici», anche ai più alti livelli!).
Quanto siamo lontani dall’assomigliare a San Giuseppe. Quanto siamo lontani dall’accogliere le parole che Paolo scrive ai Colossesi: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Amanti dunque della vita nascosta in Dio e di cui solo Dio conosce il segreto e la preziosità.
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