L'economista della Bocconi: «A dieci anni dall'inizio della crisi economica si iniziano a intravedere segnali di un'inversione di tendenza, insufficienti però ad alleviare la disoccupazione giovanile. Un dramma che può alimentare illegalità, delinquenza e anche pericolose derive populistiche»

di Annamaria BRACCINI

Severino Salvemini

In questi giorni che avvicinano al 1 maggio ci si interroga sul lavoro. La Diocesi di Milano lo fa con la tradizionale Veglia di preghiera, presieduta dal cardinale Scola ad Arcore, presso lo stabilimento della Peg Perego. La domanda di fondo è se siamo ormai fuori dal tunnel della crisi e come, in ogni caso, sostenere chi è nella sofferenza per la perdita dell’occupazione. «Sicuramente c’è un piccolo “rimbalzo”, nel senso che i primi mesi del 2017 fanno intravvedere una leggera inversione di tendenza, a distanza di ormai dieci anni dall’inizio della crisi economica – dice Severino Salvemini, professore ordinario di Organizzazione aziendale alla Bocconi -. Però si tratta di un “poco” insufficiente a ribaltare la situazione, in particolare dei giovani. Gli ultimi dati, comunicati dal ministro Padoan, dicono che in parte – come risultato legato al Jobs Act – sono stati creati circa 740 mila posti di lavoro. Tuttavia la situazione giovanile, che è la più preoccupante, rimane ferma a una quota di disoccupazione assolutamente inaccettabile per una Nazione come l’Italia».

Esiste qualche possibilità, a breve, di incidere su tale situazione?
La possibilità di rilanciare l’economia, in questo momento, è determinata dalla necessità di mantenere il rapporto del debito pubblico, come ci chiede l’Europa. Se potessimo andare oltre questo, avremmo almeno due leve. La prima, quella d’incentivare gli investimenti, aumentando la produttività – il vero problema dell’economia italiana è, appunto, la bassa produttività – con un maggiore rilancio delle imprese e, quindi, più posti di lavoro. La seconda leva è poter utilizzare parte di quel “tesoretto” congelato per motivi europei, che ci consentirebbe di fare una politica fiscale a favore della ripresa. Non vedo altre possibilità, anche perché negli ultimi mesi, alla condizione in atto, si è aggiunto un dato non secondario, ossia il fatto che i nuovi posti di lavoro non sono andati tutti ai giovani, ma in parte a una generazione diciamo di senior. Ovviamente è comunque una notizia positiva riguardo ai 40-50enni, ma, dal punto di vista sociale, rimane la questione della disoccupazione dei ventenni, che è il dramma principale anche perché spacca il Paese tra Nord e Sud, dove i giovani inattivi sono al 40%. Ciò può alimentare non solo illegalità e delinquenza, ma anche pericolose derive di carattere politico-ideologico, di populismi diffusi.

Oggi si parla di nuovi sistemi di finanza sostenibile, di economia di comunione. Sono strade praticabili?
Sì. Tutto il tema dell’economia di condivisione, della sharing economy, è sicuramente interessante perché stanno cambiando le formule. A tale proposito, si può osservare cosa sta succedendo nell’economia chiamiamola più florida, che non è la nostra, ma quella statunitense o tedesca, dove vediamo che le grandi corporations che hanno contraddistinto il Novecento non esistono più con il profilo di “grande impresa” che fa da maternage nei confronti dei lavoratori per tutta la loro carriera, permettendo di guadagnare e fare famiglia, far studiare i figli, comprare casa. Il modello economico odierno è infatti costruito da “piccole scatole” che hanno relazioni con altre “piccole scatole”. Un sistema che non garantisce più l’impiegabilità del lavoratore “per la vita”. Su questo occorre riflettere, perché il modello esistenziale del passato è ormai tramontato per sempre.

 

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