L’urbanista, assessore a Lavori pubblici e casa per il Comune di Milano, “legge” il Discorso dell’Arcivescovo lanciando una serie di proposte operative anche “provocatorie”
di Stefania
CECCHETTI
A leggere il titolo del primo Discorso alla città di monsignor Mario Delpini – «Per un’arte del buon vicinato» -vengono in mente, in prima battuta, le scene di certi film americani, dove la vicina bussa alla porta dei nuovi arrivati portando una torta di benvenuto fatta in casa. E invece l’arte del “buon vicinato” è un concetto che tocca da vicino proprio noi milanesi, in genere poco inclini al sorriso e a certe smancerie, persi nel traffico, travolti dai ritmi indiavolati delle nostre vite.
Ne è convinto anche Gabriele Rabaiotti, urbanista, anima del villaggio Barona (uno dei primi esperimenti di housing sociale in Italia), assessore a lavori pubblici e casa nella Giunta Sala: «Quello di “buon vicinato” è un concetto prezioso – sottolinea -, per nulla banale, specialmente nel nostro sistema sociale, caratterizzato da una sorta di intrappolamento nella dimensione individuale. L’arcivescovo riapre il tema del rapporto tra felicità pubblica e privata, lancia l’idea che tutti possiamo riservare un po’ delle nostre energie ad altro o ad altri e non rimanere più concentrati solo sulla nostra storia. Insomma, mette in luce la contrapposizione tra due modelli antitetici: una società rattrappita e autocentrata e una società più aperta, relazionale, che cerca l’altro».
E mentre dice queste cose – durante un’improbabile intervista telefonica concessa mentre pedala verso palazzo Marino (naturalmente con gli auricolari) – ironia della sorte, l’assessore deve schivare un pedone, che sta passeggiando irregolarmente sulla pista ciclabile, e si trova pure ad essere preso a male parole.
Ordinaria tensione urbana a Milano. L’arte del buon vicinato, di cui parla Delpini, sarà davvero possibile? Se sì quali pratiche possono favorirla? «Premetto che la città, quella moderna soprattutto, non nasce come luogo del vicinato – spiega Rabaiotti -. Viviamo in mezzo agli altri più per questioni di opportunità che per la bellezza dello stare insieme. Non dobbiamo dimenticare che la città, e non solo Milano, è per definizione il luogo in cui si è soli, sconosciuti, in sociologia urbana si parla di “folla solitaria”. Ma io credo che si possa raccogliere la sfida».
Secondo l’assessore sono tre gli ingredienti per una buona convivenza: «Il primo è il mescolamento di funzioni diverse in uno stesso spazio. Più la città mescola più ci spinge, anche in modo casuale, a incontrare l’altro. Parlo per esempio dell’utilizzo di un piano terra di un edificio residenziale destinato ad attività culturali, di volontariato, piuttosto che dell’uso di aule per ospitare un centro diurno per disabili al primo piano di una scuola sottoutilizzata o, perché no, di arrivare ad aprire gli ambienti scolastici di notte per ospitare i senza fissa dimora».
Proposte audaci, facciamo notare. «Sì, ma se non accettiamo questo genere di “provocazioni urbane” non siamo pronti al buon vicinato – replica Rabaiotti -. Perché, lo dice lo stesso Delpini, la vera sfida del buon vicinato è l’incontro con chi è lontano da noi, altrimenti che merito ne avremmo?».
Secondo ingrediente: la concentrazione territoriale delle politiche, non solo quelle urbanistiche. «Bisogna individuare – spiega Rabaiottti – luoghi target nei quali diverse politiche lavorino insieme. Un esempio è quello dei quartieri popolari: lì abbiamo i vigili di quartiere e i custodi sociali, entrambi servizi pubblici utili e preziosi, che però si trovano ad operare su binari autonomi, dove il raccordo è difficile. Ci vorrebbe un civic center che riunisca le risposte pubbliche e i servizi per la comunità, dove chi va per una determinata questione si trovi poi a incontrarsi-scontrarsi con altre realtà. Se il confronto avviene sempre tra gli stessi soggetti con gli stessi problemi si sviluppa segregazione, una vicinanza opprimente e non liberante».
Terzo elemento su cui si sofferma Rabaiotti parlando di buona convivenza urbana è la sinergia: «Chiediamoci cosa possiamo mettere in campo lavorando insieme tra istituzione pubblica, Chiesa ambrosiana e altri soggetti attivi in campo sociale. Possiamo pensare a un tentativo sperimentale di uscire dalla dimensione rancorosa e autocentrata verso un modello di città aperta e coraggiosa? Magari progettando concretamente uno spazio pubblico con edifici abitativi per famiglie, edifici scolastici, un centro medico, un mercato comunale, un grande giardino… Insomma un aggregato nuovo e curioso di servizi pubblici diversi, alcuni attenti alla scala locale altri a quella cittadina, perché in quella parte di città ci entri anche qualcuno che non ci abita e non si traduca nel quartiere ghetto».
Rabaiotti, insomma, rilancia il ruolo di tutti i soggetti pubblici, proprio come l’arcivescovo Delpini fa nell’apertura del suo Discorso, elogiando i rappresentanti delle istituzioni: «L’amministrazione della cosa pubblica non è uno scherzo, eppure oggi tutti la vedono solo come il luogo in cui uno arriva al potere per fare i propri interessi. La gran parte del mio tempo come assessore la passo a convincere i cittadini a credere ancora in un cambiamento possibile, a ridare fiducia alla politica. L’invito dell’Arcivescovo a riabilitare i soggetti pubblici e le loro funzioni, in un momento in cui la politica ha perso credibilità, è molto importante».