Una lunga sequela di persone che hanno servito e onorato il Signore percorrendo le strade della Diocesi o di Paesi lontani. A cominciare da papa Montini, prossimo Santo, modello di umiltà e fortezza

di Annamaria BRACCINI

Cardinale-Montini

Può una grande città come Milano, tra lo sky-line alla moda e le periferie ancora troppo povere, essere luogo di santi? E se la metropoli fosse famosa non solo per la sua imprenditorialità, la moda o gli chef, ma anche per la fioritura di beati che, magari, hanno messo al servizio dei più disperati e soli proprio le qualità, tutte ambrosiane, che ci rendono famosi nel mondo? Sì, è possibile, anche solo a scorrere superficialmente la sequela di quanti hanno servito e onorato il Signore percorrendo le tante strade della Diocesi o di Paesi lontani.

Dai lebbrosi del Brasile ai “lebbrosi” di casa nostra, ospitati a pochi passi dalla Stazione Centrale, da Gianna Beretta Molla, moglie, madre e medico (ultima santa ambrosiana dopo secoli) al futuro canonizzato papa Montini, non è nemmeno troppo arduo disegnare una sorta di “cartina milanese” della santità. Quella che si può incontrare non solo nelle targhe o nelle statue della storia, ma nella quotidianità di esistenze apparentemente normali. Basti pensare al talento educativo di sacerdoti e laici capaci di diventare, pur nella diversità dei carismi, punto di riferimento per intere generazioni, come Giuseppe Lazzati, don Carlo Gnocchi e monsignor Luigi Giussani o a chi, come Marcello Candia, lasciò la propria attività di successo per soccorrere i poveri in Amazzonia. O ancora, a chi, come il giovanissimo Carlo Acutis, ha usato l’informatica per comunicare il Signore, tanto da essere definito il primo “santo 2.0”.

E tutto questo a Milano, nel cui cuore proprio il futuro Paolo VI visse la sua missione come Arcivescovo di Milano, tra un boom non ancora esploso e l’inizio degli anni Sessanta in cui tutto sembrava un roseo, incontrovertibile «destino progressivo dell’umanità». Eppure Montini, santo autentico anche nel senso della lungimiranza, dell’intelligenza e della finezza intellettuale, capì e seppe parlare chiaro, facendo della sua esperienza milanese, come lui stesso osservò, «un campo sperimentale di tipica e positiva importanza pastorale». Montini, profetica guida di una «Milano che non dà tregua» (come scrisse nel 1959) e di cittadini ai quali «non bisognava insegnare a lavorare, ma a pregare». Come non ricordare l’ormai leggendaria Missione di Milano del 1957 che resta, a oggi, la più grande mai predicata nella Chiesa cattolica, per raccontare l’ansia del futuro Santo per la trasmissione della fede e per edificare una Chiesa di popolo “in uscita”? Un ruolo vissuto con umiltà e fortezza: non a caso, le due virtù eroiche emerse più spiccatamente nel processo di canonizzazione. Da qui la tensione all’evangelizzazione, portata da Pastore ambrosiano in ogni angolo della metropoli e, come Pontefice, ovunque nel mondo, visitando, per primo, i cinque continenti con quello sguardo “amico” che egli rivolse al mondo contemporaneo arrivando a una «vera e propria simpatia», pur nella consapevolezza delle tante difficoltà del tempo moderno.

Una valutazione, tuttavia – come ha sottolineato recentemente l’arcivescovo Delpini – «che non lo convinse mai a una rassegnata ritirata per la sopravvivenza, ma piuttosto all’audacia della missione, nella più ordinaria interpretazione della presenza della Chiesa come presenza missionaria».

 

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