La mano del Padre conduce e guida per una strada sicura, nel fratello che corregge riconosciamo il dono di chi vuole il nostro bene

di Cristiana DOBNER

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Tra correzione e correzione c’è una notevole e fondamentale differenza. Non solo per chi deve o vuole correggere, ma anche per i tempi e la modalità della correzione. Penso che nessuno e nessuna non ritrovi dentro di sé traccia di qualche correzione ingiusta o molesta, oppure anche di una correzione giusta e corretta, ma che, di primo acchito, suscita imbarazzo e sofferenza.

Come giungere al punto indicato dalla Lettera dell’Arcivescovo? Come vivere quella correzione che «… arreca un frutto di pace e di giustizia» (Eb 12,11)?

Consideriamo quel “chi” determinante: se è un Chi significa che agisce Dio stesso, oppure è un chi in cui si può ritrovare un amico, un esperto che incita e può dare una mano, oppure un chi che si rode di invidia e di gelosia…

Il quotidiano solcato dalla correzione può diventare un terreno arato e pronto per la semina, quindi aperto al sole, aperto alla germinazione, alla fruttificazione, oppure può rivelarsi un terreno ostico, duro, rinchiuso in se stesso. Può anche trattarsi di un intervento rozzo e maldestro, ma quante volte invece manca proprio quella postura interiore che si denomina accoglienza? È un cammino arduo, difficile, ma non per questo impercorribile. Se l’esperienza della Presenza dell’azione dell’Altissimo nella propria storia personale è viva, la suscettibilità perde terreno e può riconoscere quella mano che conduce e guida per una strada sicura.

Indubbiamente, come segnala il nostro Pastore, «non sembra pertinente, infatti, interpretare le tribolazioni della vita e le disgrazie come puntuali interventi di un Dio governatore dell’universo, intenzionato a punire il popolo ribelle per correggerlo»; quindi non si tratta di un meccanismo di causa ed effetto che si inneschi senza considerazioni e riserve. È solo un campanello d’allarme che fa quasi saltare oltre e scoprire come il Padre che corregge (il popolo e ognuno di noi) non desideri altro che il bene e quello più duraturo e proficuo.

Non può la nostra coscienza ricredersi anche se la nostra sensibilità sta inghiottendo un boccone amaro? Forse ci vuole tempo. Anche destrezza, ma pure una sorta di ginnastica muscolare della volontà che si abbandona all’invito del Signore perché riconosce in Lui Colui che ci ha creati e salvati. Insomma, piegare il capo non aggrada alla natura di nessuno. Piegarlo però perché le mani che lo accolgono trasudano d’amore e sono quelle del Figlio che ci conduce al Padre, diventa un sentire di profonda pace.

Quando invece la correzione si snoda su di un piano orizzontale, cioè è il mio compagno o la mia compagna di cammino nella vita a volermi o dovermi correggere, ecco insorgere sentimenti di ritrosia o anche sentimenti di astio.

Chi si nasconde e si maschera nel proprio guscio di chiocciola e, ahimè, si crogiola e si snerva nel risentimento. Chi invece si erge con una zampata e colpisce. Non si finirebbe mai di analizzare le diverse tipologie umane a quello che invece sarebbe così semplice e diretto riconoscere come un dono del fratello e della sorella. Persone che già hanno esperienza di valichi superati, di ostruzioni che si possono sciogliere con gesti d’amicizia e vicinanza. Persone che vogliono il nostro bene, anche se talvolta può apparire esattamente il contrario.

Essere corretti allora diventa un momento di grazia, di quella pace nulla e nessuno può intaccare.

Se poi, per ragioni d’età o di funzioni, si passa dalla parte del correttore, penso domini un pensiero e un desiderio: quanto è più semplice e pacifico lasciarsi correggere!

 

 

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